Ansioso, rabbioso depresso: questi sono gli aggettivi che solitamente vengono in mente quando si pensa a Edvard Munch. Una fama, la sua, che un’opera come “L’Urlo” non ha fatto molto per smentire. E se ha fatto conoscere ovunque il nome del norvegese, ha anche contribuito a oscurare parte della sua opera. Alla Tate Modern si tenta un taglio innovativo. A Londra, fino al 14 ottobre.

Sebbene l’idea di un Munch d’avanguardia sia discutibile (il fatto che molta della sua opera abiti parte del XX secolo, essendo morto nel 1944, non lo rende necessariamente un modernista), il relegare per una volta le sue ben note angosce esistenziali a un ruolo secondario è una ventata d’aria fresca. Perché Munch, come altri della sua generazione, fu profondamente influenzato dall’avvento della tecnologia e per tutta la sua carriera non cessò di sperimentare con strumenti alternativi alla pittura, come la fotografia e il cinema. Ed è proprio questo che la mostra di Tate Modern mette in rilievo, accanto a un altro elemento altrettanto importante nella sua formazione, il teatro.
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Edvard Munch – The Girls on the Bridge – 1927 – Munch Museum – © Munch Museum/Munch-EllingsendGroup/DACS 2012 |