C’era una volta in un tempo lontano, quella piccola cosa che si chiamava biglietto di carta. Per andare a teatro, al cinema, ad un concerto o ad un museo, in aereo o a qualche evento sportivo, si riceveva un piccolo tagliando colorato che attestava l’avvenuta transazione e il nostro diritto si entrare nel reame (più o meno) fatato per cui ci si era dati pena di attendere in fila, e pagare.
Ricordo con affetto i distributori automatici di biglietti nell’atrio principale della Royal Festival Hall o del National Theatre. Prenotavo spettacoli e concerti da casa e quando passavo da quelle parti, inserivo la mia carta di credito e la macchinetta si metteva in moto, stampando allegramente i miei biglietti per gli eventi per i mesi a venire. Riponevo quei tesori in una busta e ogni tanto li andavo a guardare, pregustando gioie future: una soddisfazione pazzesca.
Poi è arrivato il Covid e, quella che già era una tendenza diffusa, ma opzionale (che si poteva scegliere tra il biglietto fisico e quello digitale) è divenuta standardizzata a Londra. Certo, consentendo di effettuare la transazione senza alcun contatto, l’e-ticket e il QR code necessario per il sistema Test and Trace del governo, hanno permesso a musei, teatri, negozi e ristoranti e di riaprire cautamente le porte al pubblico nel bel mezzo della pandemia. Che al giorno d’oggi, poiché anche lo smartphone più basilare può scaricare e visualizzare gli e-ticket, non è necessario stamparli, sono più economici, sostenibili e non si perdono nella posta o tra le pile di carta della scrivania…
Ma a livello emotivo, non sono la stessa cosa. Almeno non per me che da quando ero piccola conservo i biglietti delle cose che faccio, degli spettacoli a cui vado, delle mostre che vede. Biglietti che trovano posto su l’album di ritagli del momento, insieme a qualche nota personale, e che mi piace riguardare ogni volta che mi sento nostalgica. Stampare i biglietti digitali non ha senso – vanifica l’idea stessa della sostenibilità. E comunque non è la stessa cosa.
E se i vantaggi della tecnologia e digitalizzazione che ci separano da certi oggetti fisici ormai considerati obsoleti come i CD, i DVD, le musicassette e i biglietti di carta appunto – bisogna convenire che guardare con aria sognante un codice a barre, non da’ certo la stessa soddisfazione del rigirare tra le mani un colorato biglietto stropicciato. Che difficilmente un QR code sarà in grado di sollecitare nel nostro cervello quelle epifanie sensoriali che Proust chiamava memoria involontaria, in grado di restituirci un ricordo intatto, insieme alle sensazioni fisiche che si erano provate, gli odori, i colori, i suoni…
La guerra è orribile, su questo non ci piove. Ogni giorno leggo le news con rinnovato orrore e come tutti non riesco a credere che tutto questo accada in Europa, in pieno XXI secolo. Ma come spesso accade nelle guerre, oltre ai civili la guerra colpisce anche anche un altro aspetto di una nazione, il patrimonio culturale.
E’ un argomento che mi sta molto a cuore, di cui mi ero già occupata in passato con questo post Quando il Patrimonio Culturale è sotto assedio. Mai avrei pensato di doverci ritornare sopra così presto. Il patrimonio culturale di una nazione rappresenta l’identità di una nazione, di un popolo, ma è patrimonio comune dell l’umanità e troppo spesso è divenuto parte integrante delle guerre – un altro modo per distruggere e conquistare una società cancellandone la memoria. Esattamente come sta succedendo in Ucraina incutesti giorni con il bombardamento di Leopoli, protetta dall’Unesco.
L’ultima vittima della barbarie è stata la casa nel nord-est dell’Ucraina in cui il ventiquattrenne Pyotr Ilyich Tchaikovsky ha composto l’ouverture La Tempesta, distrutta ridotta in macerie dallo stesso esercito russo. Nel 1864, quando ci si trova Tchaikovsky, la cittadina di Trostinets, vicino a Kharkov era parte dell’Impero russo. Il giovane compositore era ospite della tenuta di famiglia del principe Aleksey Vasilievich Golitsyn e scrisse l’ouverture come esercizio durante questa sua vacanza. Esercizio, appunto. Non lo considerandolo degno di pubblicazione, non fu mai eseguito durante la sua vita. La prima, fu eseguita postuma a San Pietroburgo il 7 marzo 1896, diretta da Alexander Glazunov.
Tchaikovsky stayed in Trostyanets in his 20s; the city is now destroyed. Picture: Getty
Ma la villa, come d’altronde il resto di Trostyanets, è ora ridotta ad un cumulo di rovine in seguito alla presa della città il 1 marzo 2022 da parte delle truppe russe. Dopo un mese di occupazione e combattimenti tra le forze russe e ucraine per riprenderne il controllo, della città non è rimasto che un cumulo di rovine – spesso marcate con la lettera “Z” verniciata o scritta con il gesso, la stessa che appare su carri armati, mezzi blindati e camion militari russi che hanno invaso l’Ucraina, e divenuto il simbolo dei nazionalisti e della propaganda russi.
Cento cinquanta anni fa, nel 1872 in famiglia aristocratica di Novgorod, nasceva l’artefice della prima, vera rivoluzioni russa: Sergej (Serge) Pavlovič Djagilev. La rivoluzione creata dalla visione di Diaghilev nel mondo del teatro influenzerà le arti visive e la danza cambiando per sempre non solo coreografie e scenari, ma anche il gusto del pubblico. Diaghilev è passato alla storia per aver portato il balletto in generale – e il balletto russo in particolare – nel mondo degli sponsor privati (o quasi), nonchè per essere stato il più famoso omosessuale dal tempo di Oscar Wilde (che non a caso aveva incontrato e per cui nutriva grande stima).
Prima di diventare l’impresario per eccellenza e sconvolgere così le consuetudini del pubblico e della critica dell’inizio del Novecento, Sergei tuttavia intraprende altre strade – studia legge all’università, si dedica alla pittura, al canto e alla musica. Da critico d’arte e amante del balletto, diventa consigliere artistico dei Teatri Imperiali di San Pietroburgo prima di fondare con gli amici Leon Bakst e Alexandre Benois la rivista d’avanguardia Mir Iskusstva (Il mondo dell’arte). Ma la vicinanza allo zar non gli impedisce, quando scoppia la rivoluzione del 1905, di schierarsi con i rivoluzionari e appoggiare lo sciopero dei ballerini del Teatro Imperiale.
Sempre nel 1905 organizza a San Pietroburgo un’esposizione di ritratti russi e, l’anno successivo, un’importante mostra di arte russa al Petit Palais di Parigi, considerata la più grande e completa in Europa. Vi partecipano molti artisti del tempo, da Aleksandr Nikolaevič Benois a Kostantin Somov ai più giovani Michail Fëdorovič Larionov e Natalia Gontcharova. L’ascesa di Sergei Diaghilev sembra inarrestabile. Nel 1907 presenta cinque concerti di musica russa a Parigi e nel 1908 mette in scena una produzione delBoris Godunovcon Fëdor Šaljapin all’Opéra di Parigi. L’organizzazione di esposizioni d’arte e di concerti di musica russa a Parigi segna l’inizio di un lungo rapporto con la Francia.
Affascinato dal balletto, che occupa (e ha sempre occupato) nella cultura russa un ruolo molto più importante che in qualsiasi altra nazione europea, incluse Francia e Italia dove la danza classica era nata all’inizio del XIX secolo, Diaghilev si imbarcò nell’avventura che diventerà la sua ragione di vita. Era il 1909.
Lavoravo da qualche anno al museo quando il V&A allestì una strepitosa mostra dedicata al padre di tutti gli impresari, dal titolo Diaghilev and the Golden Age of the Ballets Russes, 1909 – 1929. Scenari teatrali, costumi di scena, poster, filmati d’epoca cronologicamente organizzati in tre sale, raccontavano la storia della compagnia e le sue alterne fortune – fortune che spesso ridussero sull’orlo della bancarotta sia Diaghilev che i suoi sponsor. E se materiali, costumi e poster erano storicamente interessanti, fu il potere evocativo dei piccoli oggetti quotidiani a catturare la mia immaginazione: un paio di logore scarpette da ballo, il manoscritto de L’uccello di Fuoco di Stravinsky pieno di ripensamenti e di cancellazioni, le poche cose possedute da Diaghilev – il suo mantello da viaggio, l’inseparabile cappello a cilindro e i binocoli con cui ha osservato i trionfi (e gli occasionali disastri) della sua compagnia. Testimoniavano il duro lavoro dietro la leggenda dei Balletti Russi.
“Sergej Diaghilev (1872-1929) ritratto da Valentin Aleksandrovich Serov” by Valentin Alexandrovich Serov .
Che per esempio non sapevo che la compagnia di Diaghilev che per la cronaca comprendeva i migliori giovani ballerini russi, quasi tutti provenienti dal Teatro Mariinsky di San Pietroburgo, come Anna Pavlova eVaslav Nijinskij(la stella della compagnia, con cui l’impresario ebbe un’appassionata relazione) avesse collaborato con moltissimi artisti delle Avanguardie artistiche del Novecento, come Derain, Matisse e Picasso. Di Picasso il V&A si era assicurato il monumentale sipario de Le Train Bleu, disegnato nel 1924 e da lui formalmente dedicato a Diaghilev. Sarà il sipario ufficiale dei Balletti Russi per gli anni a venire, i segni dell’usura e le pieghe della sua superficie un testamento alla durezza della peripatetica esistenza di Diaghilev e della sua troupe durante i venta’nni della loro esistenza.
O che avesse lanciato le carriere di musicisti come Stravinskij, Prokofiev, Rimsky-Korsakov e dei miei adorati francesi Satie, Debussy e Ravel. Stravinskij, in particolare, compose le musiche per balletti come L’Uccello di fuoco, Petrushka,La sagra della primavera (titolo originale francese Le Sacre du printemps) quest’ultimo con la coreografia di Vaslav Nijinsky e la prima al Theatre des Champs-Elysées di Parigi fece scoppiare un vero e proprio pandemonio (come spesso accadde con i Balletti Russi, diciamocelo) tra quelli che ritenevano questo balletto un abominio e quelli che invece lo esaltavano vedendo in esso la nascita della musica moderna.
Diaghilev reinventa la sua compagnia come laboratorio e piattaforma di lancio per le avanguardie, collaborando con artisti come Picasso, Cocteau, Derain, Braque e Matisse e lanciando la carriera di musicisti come Stravinskij e Prokofiev. Inizialmente ispirata all’arte russa della fine del XIX secolo, la compagnia dei i Balletti Russi durante i vent’anni della sua esistenza pertipatetica cambia completamente la percezione europea in fatto di musica, colore e movimento. Da Scheherazade che unisce la musica di Rimsky-Korsakov, il virtuosismo di Nijinsky e i disegni di Léon Bakst, a Parade che vede all’opera i geni di Eric Satie, Cocteau e Picasso.
Ma durante i devastanti anni della Prima Guerra Mondiale (1914-18) la compagnia si trova tagliata fuori dai grandi circuiti dell’Europa occidentale di Londra, Parigi, Berlino e Montecarlo. E improvvisamente tutto cambia. Se nel 1914 Diaghilev e Stravinsky erano rispettabili cittadini dell’Impero Russo, quattro anni dopo si trovano improvvisamente esiliati e senza patria, in fuga da una Russia Bolscevica devastata dalla Guerra Civile. Con un ultimo colpo di coda, Diaghilev orchestra l’entrata in scena dei modernisti russi Natalia Goncharova, Mikhail Larionov e NaumGabo, e la collaborazione con i Futuristi italiani di Marinetti. Ma ultimi anni dei Balletti russi ebbero raramente il successo incondizionato delle prime stagioni. Era finita un’epoca, e nel 1929 la compagnia di danza si scioglie.
Illustrations by Léon Bakst
Diaghilev si spegne, povero ed esausto nell’agosto del 1929, al ‘Hotel des Bains al Lido di Venezia. Così povero infatti, che il suo funerale fu pagato dalla sua amica Coco Chanel. Per uno che un volta disse che “non si può vivere, si può solo essere” Diaghilev ha vissuto la sua vita con sorprendente intensità. Il repertorio dei Ballets Russes ancora oggi cattura l’immaginazione, portato nel mondo da alcuni dei suoi più celebri ballerini e devoti studenti – George Balanchine negli Stati Uniti, Ninette de Valois in Gran Bretagna, Serge Lifar a Parigi presso l’Opéra.
Londra// fino al 9 Gennaio 2011 Diaghilev and the Golden Age of the Ballets Russes, 1909 – 1929 @ Victoria and Albert Museum vam.ac.uk
Già da bambina ero affascinata dalla Russia. Non so bene cosa abbia scatenato quell’interesse iniziale, so solo che mentre tutti sognavano l’America, io volevo andare in Russia. Sarà stato il desiderio bonario di andare in Unione Sovietica del Compagno Peppone, che faceva arrabbiare Don Camillo con le sue uscite su quella “terra promessa”, sarà stato quella strana scritta C.C.C.P. presente ovunque, dalle tute dei cosmonauti alle magliette dei calciatori sovietici ai mondiali di calcio del 1982.
Sono sempre stata una bambina curiosa. E l’essere cresciuta durante la Guerra Fredda non ha altro che stuzzicare la mia curiosità. Barricata com’era dietro la cortina di ferro, la Russia – anzi l’Unione Sovietica, era per me un luogo proibito e quindi esotico. Studiavo con passione la geografia e sapevo posizionare sulla cartina con esattezza non solo Mosca, San Pietroburgo, ma anche Novosibirsk, il lago Baikal, e gli arcipelaghi di Novaya e Severnaya Zemlya. Nella mia mente, quei nomi suonavano come la quintessenza dell’esotismo, e li pronunciavo con l’entusiasmo ignaro che solo chi non conosce affatto una lingua (e quindi non sa gli strafalcioni che dice) può permettersi.
Ero affascinata dalla storia semi-leggendaria di quel paese infinito, così grande da occupare undici fusi orari (uno dei paesi con il maggior numero di fusi orari del mondo), dalle figure semi-divine di Zar e Zarine, dalle foto della Piazza Rossa, dalle cupole a cipolla di San Basilio, dallo status quasi mitologico occupato nell’immaginario collettivo dal Teatro Bolshoi e dal balletto in genere. Mia madre adorava Nureyev (anche se non era del Bolshoi) e sospirava ogni volta che ne pronunciava il nome.
Ero affascinata dalla vastità di quel paese, che sembrava infinito e il cui confine andava dal Baltico al Pacifico; dall’Oceano Artico al Mar Caspio, dal quel suo non essere Asia, ma neanche del tutto Europa. Sapevo quanto fosse grande l’America, ma sapevo quanto fosse più grande la Russia.
Anche quando sono stata sconfitta dalla mole (Guerra e Pace), dalla disperazione (Delitto e Castigo) e dal criptico surrealismo (Il Maestro e Margherita) della sua letteratura, non mi sono arresa. Ho studiato la storia e ho cercato di capirne la cultura. Ho persino cercato di imparare la lingua. Quando vi sono ritornata anni dopo, più matura e con più esperienze alle spalle, me ne sono innamorata più che mai. E poi la musica. E il balletto.
Per questo è così doloroso per me assistere alla carneficina che Putin sta infliggendo all’Ucraina. Alcuni tra i miei artisti scrittori e musicisti vengono da quel paese. Nikolai Gogol, Mikail Bulgakov e AleksandrSolzhenitsyn. E Ilya Repin e Mikhail Larionov. E Sergei Prokofiev, l’autore della più incredibile suite musicale, The Dance of the Knights per per il più incredibile dei balletti, Romeo and Juliet di Kenneth McMillan. Persino la più famosa donna cecchino sovietica, Lyudmila Pavlichenko era ucraina.
E’ come assistere ad una guerra fratricida. Mi sembra puro autolesionismo.
Ovvero, di come il celebre e controverso balletto di Tchaikovsky riceve il trattamento “matthewbourniano”.
Ma i puristi non si agitino (io lo ero, agitata) che ciò che le due versioni hanno in comune è solo la musica rendendo perciò impossibile inutili paragoni. Quello di Matthew Bourne e della sua compagnia di danza New Adventures infatti non potrebbe essere più lontano dallo scintillante balletto tradizionale, a cominciare dalla storia di Hoffmann ambientata in un grigio e triste orfanotrofio di stampo dickensiano, i cui orfani la vigilia di Natale aspettano con ansia la visita di alcuni benefattori – sotto lo sguardo arcigno dei direttori del loro collegio, il Signor e la Signora Dross e dei loro viziati rampolli Sugar e Fritz, pronti a togliere alla prima occasione i regali donati agli orfani . La piccola Clara riceve in regalo uno strano giocattolo, non proprio uno schiaccianoci, ma un curioso pupazzo da ventriloquo, di cui si innamora perdutamente quando questi all’improvviso si trasforma in un giovane prestante e la porta nel mondo della neve e dello zucchero.
Il secondo atto si trasforma in una una coloratissima fantasmagoria visiva, in cui si susseguono in un divertissement dopo l’altro torte gigantesche, caramelle danzanti, liquirizie spagnole, le ragazze Marshmallow, i bon bon Gobstoppers, impegnati nelle loro particolari versioni delle danze tradizionali. Uno dei momenti più magici secondo me è la Danza dei Fiocchi di Neve, immaginata su una pista da ghiaccio, che evoca vecchi film scandinavi (o una scena di Little Women).
Fostituita nel secondo atto da un mitico reame fatato dove tutto è candito e commestibile.
Fantasia e l’immaginazione si coniugano con una tecnica di danza inappuntabile, tanto elegante, quanto espressiva. Tutti i ballerini hanno, infatti, capacità mimico-narrative notevoli, oltre che un’indiscussa preparazione fisica e tecnica Quello che qui si cerca è lo stupore infantile, la gioia e il divertimento di un regno dei dolciumi rosa shocking. E certamente qui c’è di tutto in abbondanza.
Nella biblioteca del museo mi sono trovata tra le mani il catalogo di una mostra di molti anni fa da titolo Postmodernism: Style and Subversion 1970-1990. Ricordo di essere uscita completamente elettrizzata. E non solo perché la mostra era divertente e interessante, ma perchè per una volta il passato che già passato, non era ancora troppo passato da non ricordalo. Che da figlia della Generazione X quale sono, le cose che stavano lì dentro me le ricordo tutte – o quasi. Sono postmoderna pure io!
Che negli anni Ottanta anch’io ero un’adolescente con la permanente da barboncino impazzito (bruciacchiata al punto giusto) che se ne andava in giro infagottata in orrendi maglioni oversize con le maniche a raglan, annegata in giacche e giubbotti dalle spalle talmente imbottite da intimidire un giocatore di football americano, piegata sotto il peso di uno dei primi modelli di Walkman creati dalla Sony (così pesante che si vendeva provvisto di un’apposita tracolla!). iPod? Mp3? Spotify? iTunes? Stiamo scherzando?? Mai come negli anni Ottanta è stato così faticoso essere cool…
Se per il Modernismo la decorazione era quasi un peccato mortale, per il Postmodernismo è vero il contrario. Quello postmoderno è un mondo effimero, dominato dalla teatralità e dall’esagerazione, un mondo abitato da pop stars androgine come Boy George o Grace Jones, un mondo in cui artificiale e naturale si uniscono come nelle architetture di Philip Johnson o di Hans Hollein che giocano in modo irriverente con i principi architettonici dell’architettura classica. In breve, un mondo che va affrontato con scettiscismo e ironia.
Dopo essermi aggirata per le varie sezioni (i curatori hanno saggiamente deciso di concentrarsi solo sul design, evitando arte e letteratura contemporanee che da sole avrebbero fornito abbastanza materiale per un’altra mostra) mi sono appropriata delle cuffie attaccate al televisore che trasmetteva non stop video di Kraftwerk, Talking Heads, Devo, Visage e altre chicche di MTV, guardata con aria attonita da una moderna adolescente mentre, con le cuffie nelle orecchie, improvvisavo goffe mosse di danza al ritmo dei Culture Club. Che la poverina in questione avrà avuto sedici anni e dubito che sapesse cosa fossero Boy George e la New Romantic Uh!
Ho sostato con reverenza davanti ai costumi di scena di Annie Lennox e di David Byrne, e di quelli di Pris e Rachel, le replicanti di Blade Runner, film che ho visto quando avevo quattordici anni ed ero cotta marcia di Harrison Ford e al cinema ci andavo al pomeriggio.
Ho ammirato il segno del Dollaro di Andy Warhol introduce il soggetto del denaro e la cultura degli yuppies, che io ricordo più per i film di Carlo Vanzina con Massimo Boldi e Cristian de Sica che per la manovra economica di Margaret Thatcher. Mi sono commossa davanti al prototipo della copertina di Closer dei Joy Division, e ho sorriso con tenerezza davanti ai caricaturistici utensili da cucina Alessi e ai mobili assurdi e alle assurde (e bellissime!) ceramiche del Gruppo Memphis di Ettore Sotsass e di Studio Alchymia. Che al contrario del Modernismo, dove la forma segue la funzione, per il Postmodermismo lo stile viene prima di tutto. E non a caso l’Italia e stata una delle prime nazioni ad abbracciare con entusiasmo questo movimento! È davvero una questione di stile, e di quello noi italiani di quello ne abbiamo davvero da vendere… 😉
Karl Lagerfeld in his Memphis-furnished apartment in Monte Carlo, 1981. Photo: Jacques Schumacher.
Inutile dire che sono uscita dalla mostra gongolante e con un mega-sorrisone stampato sulla faccia. Che è stato impagabile rivivere quegli anni. E ancora di più è stato farlo senza la permanente bruciata…
2022
Londra//fino al 15 Gennaio 2012
Postmodernism: Style and Subversion 1970 – 1990 @ Victoria and Albert Museum
Ma io odio i ragni, anhe quelli fittizi e per me l’unico Uomo Ragno è quello della canzone di Max Pezzalie Mauro Repetto (e poi da altri, ma non importa), aka gli 883, che è stata il tormentone del 1992.
Ah, Lo Schiaccianoci! Uno dei classici di Natale, di quei balletti universali in grado di coinvolgere tutti, grandi e piccini, spettatori appassionati e occasionali. E insieme a Il Lago dei Cigni e La Bella Addormentata è certamente uno dei più famosi della tradizione russa, con alcune tra le melodie più famose e riconoscibili del Romanticismo. Non occorre essere un esperto di musica classica per conoscere la musica delValzer dei fiori, della Danza russao quella inconfondibile della Danza della Fata Confetto, se non altro per averle sentite almeno una volta in qualche film o in televisione?
Abitando a Londra, la versione che conosco meglio e quella del Royal Ballet, e avendo mancato il loro splendido Nutcracker per qualche anno di seguito, quest’anno mi sono precipitata a vederlo, prima che un nuovo lockdown o come è accaduto a Berlino, il politically correct – lo togliessero nuovamente dal palcoscenico. Che sì, a Berlino il balletto di Ciaikovskij è stato giudicato razzista e per questo tolto dal repertorio in attesa di essere riveduto e corretto.
La storia è semplice: Clara Stahlbaum e la sua famiglia stanno organizzando una grande festa di Natale, i regali sono ammassati sotto il grande albero e i presenti mangiano, bevono e si divertono. Il giocattolaio Drosselmeyer, il misterioso padrino di Clara, dona alla bambina una bellissima bambola di legno, lo Schiaccianoci. Ma Fritz, il fratello di Clara, è geloso del dono. I due litigano rompendo lo Schiaccianoci si rompe, che viene prontamente riparato da Drosselmeyer.
Francesca Hayward as Clara and Gary Avis as Drosselmeyer in the Royal Ballet Nutcracker
Più tardi quella notte, Clara scende di soppiatto per controllare il suo amato nuovo giocattolo. L’orologio suona la mezzanotte e all’improvviso tutti i giocattoli prendono vita e Clara si ritrova all’improvviso nel bel mezzo di una battaglia tra i soldatini comandati dallo Schiaccianoci e i topolini del Re dei Topi.
Clara aiuta coraggiosamente lo Schiaccianoci, e grazie a lei il Re dei Topi è sconfitto e l’incantesimo è rotto e la bambola si trasforma in un giovane, Hans Peter, il nipote di Drosselmeyer che è stato maledetto dalla madre del re dei topi molti anni fa. Ma le avventure di Clara non sono finite e insieme ad Hans-Peter e Drosselmeyer viaggia su una slitta, guidata dall’angelo dell’albero di Natale, verso terre lontane. Attraversano il Paese delle Nevi arrivando infine nel Regno dei Dolci dove incontrano la Fata Confetto e del Principe Coqueluch, che li accolgono nel loro regno e li presentano ai loro amici. Tutti ballano per festeggiare, e in onore della giovane eroina, viene prodotta una celebrazione di dolci provenienti da tutto il mondo: La Cioccolata – Danza spagnola, Il Caffè – Danza araba, Il Tè – Danza cinese, I bastoncini di zucchero: Trepak – Danza russa, I pastorelli di marzapane: Pastorale – Danza degli zufoli (o dei “flauti di canna”).
Vadim Muntagirov and Marianela Nuñez in the Royal Ballet’s The Nutcracker
Ma i tempi sono cambiati e da esotici intermezzi, questi divertissements– cioè una suite di brani puramente strumentali in sequenza libera, dal carattere per lo più scorrevole e leggero, sono al giorno d’oggi accusati di essere intollerabili caricature etniche e sono stati cambiati o addirittura tagliati per evitare di offendere la suscettibilità della Woke generation. Come se i bambini di adesso attaccati come sono a Internet e ai socials non sapessero già anche troppo del mondo per credere agli stereotipi.
Dance of the Sugar Plum Fairy from The Nutcracker (The Royal Ballet)
Ispirato dal libro La storia di uno schiaccianoci di Alexandre Dumas che a sua volta aveva adattato e addolcito la fiaba originale Lo schiaccianoci e il re dei topi scritta da E.T.A Hoffmann nel 1816, con musiche di Pyotr Ilyich Tchaikovsky e coreografia di Marius Petipa e Lev Ivanov, Lo Schiaccianoci fu rappresentata per la prima volta al Teatro Mariinsky di San Pietroburgo nel 1892. La produzione e l’interpretazione della storia del Royal Ballet sono state create da Sir Peter Wright e hanno debuttato alla Royal Opera House nel 1984.
In occasione dei trent’anni dalla morte di Freddie Mercury, avvenuta il 24 novembre 1991 a Londra, ripercorriamo le tappe principali della band di cui è stato il frontman, diventando protagonista di alcune delle pagine più belle della musica mondiale. L’articolo Freddie Mercury, 30 anni dopo: i cinque album più belli dei Queen proviene da Uozzart.
Era il 1983, la Vita Spericolata di Vasco Rossi imperversava ovunque, la mia”playa” era Rimini e io pensavo che i Righeira davvero fossero spagnoli 🇪🇸 ignara che mai come in quell’annoil mondo è stato sull’orlo del precipizio e ha rischiato la distruzione. Beata ignoranza…
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