War Games – (Video)Giochi di Guerra

La mostra più bella che abbia visto quest’anno, è una che non volevo vedere. Parlo di War Games: Real Conflicts | Virtual Worlds | Extreme Entertainment  all’Imperial War Museum. Non giocando a video games, semplicemente non mi interessava.

E’ stata la nostalgia. Che gli ex-adolescenti della mia generazione, ricorderanno Wargames – Giochi di guerra, il film del 1983, in cui un imberbe Matthew Broderick impersona il giovane David Lightman, studente di Seattle appassionato di informatica nonché promettente hacker. Alla ricerca di nuove sfide, il nostro eroe si introduce in quello che crede essere il computer di una nota casa di videogiochi che sta per lanciare prodotti nuovi e inizia a giocare. Fino a quando inizia, senza saperlo, una partita con lo WOPR (The War Operation Plan Response) dell’esercito americano, rischiando inavvertitamente di portare il mondo sull’orlo di un disastro nucleare. Il computer dell’epoca fa quasi tenerezza, un’ingombrante scatola di plastica e lucine, connessa al telefono. Il mio, che pure ho acquisito molti anni più tardi, non era molto diverso.

Essendo totalmente priva di interesse in ogni tipo di video gioco (i miei ricordi si fermano a Pac-Man), fatico a capire l’entusiasmo che li circonda (anche qui, i miei ricordi si fermano alla battaglia navale su carta e al Risiko). Certo, i giochi d’azione (e di guerra) sono in circolazione da molto tempo e hanno sempre avuto una relazione più stretta del previsto con gli sviluppi della guerra nella vita reale. Basti pensare al gioco degli scacchi, il gioco di strategia per eccellenza, da secoli prediletto di re e aristocratici, come mezzo per apprendere i primi rudimenti sul come muoversi, in teoria, su quella rappresentazione astratta del campo di battaglia che era la scacchiera.

Ma nei video giochi degli ultimi trent’anni la pistola e tutti i suoi derivati, fanno la parte del leone. Pare che la guerra e la violenza in genere, costituiscano un buon soggetto per un gioco. Mi sono spesso chiesta se il perché di tanto successo fosse rispondesse al bisogno atavico di sfogare odi e frustrazioni personali in un luogo “sicuro”, un po’ come i grandiosi e sanguinosi spettacoli pubblici con cui gli imperatori romani si assicuravano che la plebe sfogasse la propria rabbia al circo, piuttosto che in rivolte sociali. O forse perchè avere tra le mani una pistola finta, sia quella di un tiro a segno, o quelle di una console, ci fa sentire onnipotenti?

Nel tentativo di indagare il motivo per cui i giochi di guerra siano così popolari tra gli utenti, i curatori dell’Imperial War Museum hanno coinvolto psicologi , storici, accademici e disegnatori. E il risultato è illuminante. I video games offrono uno spazio sicuro in cui chiunque può sperimentare l’inimmaginabile: non a caso simulatori di campo di battaglia come Virtual Battlespace Four, sono usati da anni dalle forze armate di tutto il mondo, mentre i soldati che affetti da disturbo da stress post-traumatico possono tranne benefici come mezzo per elaborare il trauma. I video games, insomma, fornisco uno spazio in cui sperimentare situazioni che siamo curiosi di provare, ma che non vorremmo mai vivere nella realtà. Con i loro suoni, colori e una grafica sempre più realistica e complessa, ci risucchiano emotivamente, permettendoci di diventare il motore della storia e di trasformarci in eroi senza paura o in cecchini infallibili dalla sicurezza del nostro divano, senza farci un graffio..

A still from battle simulator Arma 3 / Arma/ Imperial War Museum

Ma si corre il rischio che questo ricreare virtualmente la guerra possa essere pericoloso, sfumi i contorni della nostra realtà, diventanti un’estensione o finisca addirittura per sostituirsi ad essa. Al punto che per alcuni può diventare difficile distinguere tra le due cose. Quando giochiamo sappiamo che la violenza è finta, possiamo ricominciare a giocare anche se nella partita precedente eravamo stati uccisi. Ma nella realtà questo è impossibile, e i giochi violenti sono spesso stati additati come i responsabili dell’aumento di sparatorie di massa, soprattutto nelle scuole americane, sebbene un rapporto dell’agosto 2015 dell’American Psychological Association non abbia trovato prove sufficienti di un legame tra i video giochi violenti e l’aumento della violenza. Ma lo stesso rapporto ha tuttavia stabilito che tali giochi portano ad un aumento dell’ aggressività.

Allora mi chiedo se, oltre alle fin troppo note (e condivise) frustrazioni della vita reale (l’austerity, la guerra in Ucraina, il rincaro dei prezzi, gli eventi della politica interna), mi chiedo se è anche per questo, o in parte ANCHE per questo, per l’aver passato troppo tempo in solitudine attaccati al computer a fingere di giocare alla guerra che la gente è emersa dal lock-down così violenta ed intrattabile?

2022 ©Paola Cacciari

London//fino al 28 Maggio 2023

Imperial War Museum

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La fine di un’epoca: quella di Elisabetta II 👑

Certo che l’ho guardato il funerale della Regina. Che sarebbe stato strano vivere nell’ombelico del mondo senza condividerne un pezzo di storia così importante.

Ma tra le molteplici emozioni che che quelle immagini storiche mi hanno trasmesso – la gloriosa parata, la corona, i fiori, la bandiera che ricopre la bara contenente i resti mortali di Elisabeth II – niente come quella mano guatata che gentilmente accompagna il feretro che, sulle spalle dei soldati, sale i gradini di St George Chapel al Castello di Windsor, sembra mettere la definitiva parola FINE ai settant’anni della seconda epoca elisabettiana.

LondonLife – Scenes from the Platinum Jubilee celebrations…

Queen Elizabeth II on the balcony of Buckingham Palace along with members of the Royal Family. PICTURE: SAC Connor Tierney/UK MOD © Crown copyright 2021 Four days of celebration were held from Thursday to Sunday to mark Queen Elizabeth II’s Platinum Jubilee. Here’s a short selection of images from the events… The Gold Coach takes […]

LondonLife – Scenes from the Platinum Jubilee celebrations…

C’era una volta il biglietto di carta…

C’era una volta in un tempo lontano, quella piccola cosa che si chiamava biglietto di carta. Per andare a teatro, al cinema, ad un concerto o ad un museo, in aereo o a qualche evento sportivo, si riceveva un piccolo tagliando colorato che attestava l’avvenuta transazione e il nostro diritto si entrare nel reame (più o meno) fatato per cui ci si era dati pena di attendere in fila, e pagare.

Ricordo con affetto i distributori automatici di biglietti nell’atrio principale della Royal Festival Hall o del National Theatre. Prenotavo spettacoli e concerti da casa e quando passavo da quelle parti, inserivo la mia carta di credito e la macchinetta si metteva in moto, stampando allegramente i miei biglietti per gli eventi per i mesi a venire. Riponevo quei tesori in una busta e ogni tanto li andavo a guardare, pregustando gioie future: una soddisfazione pazzesca.

Poi è arrivato il Covid e, quella che già era una tendenza diffusa, ma opzionale (che si poteva scegliere tra il biglietto fisico e quello digitale) è divenuta standardizzata a Londra. Certo, consentendo di effettuare la transazione senza alcun contatto, l’e-ticket e il QR code necessario per il sistema Test and Trace del governo, hanno permesso a musei, teatri, negozi e ristoranti e di riaprire cautamente le porte al pubblico nel bel mezzo della pandemia. Che al giorno d’oggi, poiché anche lo smartphone più basilare può scaricare e visualizzare gli e-ticket, non è necessario stamparli, sono più economici, sostenibili e non si perdono nella posta o tra le pile di carta della scrivania…

Ma a livello emotivo, non sono la stessa cosa. Almeno non per me che da quando ero piccola conservo i biglietti delle cose che faccio, degli spettacoli a cui vado, delle mostre che vede. Biglietti che trovano posto su l’album di ritagli del momento, insieme a qualche nota personale, e che mi piace riguardare ogni volta che mi sento nostalgica. Stampare i biglietti digitali non ha senso – vanifica l’idea stessa della sostenibilità. E comunque non è la stessa cosa.

E se i vantaggi della tecnologia e digitalizzazione che ci separano da certi oggetti fisici ormai considerati obsoleti come i CD, i DVD, le musicassette e i biglietti di carta appunto – bisogna convenire che guardare con aria sognante un codice a barre, non da’ certo la stessa soddisfazione del rigirare tra le mani un colorato biglietto stropicciato. Che difficilmente un QR code sarà in grado di sollecitare nel nostro cervello quelle epifanie sensoriali che Proust chiamava memoria involontaria, in grado di restituirci un ricordo intatto, insieme alle sensazioni fisiche che si erano provate, gli odori, i colori, i suoni…

Red is the colour

La Ferrari non è l’unica iconica “rossa” del design italiano. C’è anche la cosiddetta Rossa Portatile, quella progettata da Ettore Sottsass e Perry A. King per Olivetti. Chi come me appartiene alla Generation X cresciuta a cavallo tra i due mondi, pre e post computer, naturalmente sa che mi riferisco alla scintillante macchina da scrivere Valentine di Olivetti.  

Come gli abiti che indossiamo, anche gli oggetti di cui ci circondiamo nelle nostre vite rappresentano sogni ed aspirazioni. La Valentine non è solo un’icona del design italiano, ma il simbolo del momento storico in cui è nata, caratterizzato dalle forti rotture sociali, politiche e culturali. Prodotta a partire dal 1969, l’Olivetti diventa da subito un oggetto di culto tanto che nel giro di due anni un esemplare viene acquisito dal MoMA per la propria prestigiosa collezione.

Olivetti Valentine, Paola Cacciari

La Valentine è la prima macchina interamente in plastica. La sua caratteristica principale è la portabilità e l’integrazione dell’oggetto alla sua custodia: la parte posteriore della macchina è essa stessa la “chiusura” della valigetta, e include la maniglia. Si chiude con due semplici sicure di gomma laterali e, protetta dal suo “guscio”, è pronta ad essere portata in giro nel mondo.

Con la Valentine si voleva rinnovare il successo della Olivetti Lettera 22 ma anche l’immagine dell’intera azienda. La portatile non era destinata a tecnici ed esperti, ma concepita come un oggetto pop per tutti. Alla sua uscita la si poteva trovare in mano (si fa per dire) a stelle del cinema come Richard Burton ed Elizabeth Taylor, o immortalata sulla pellicola come quella che si vede nella stanza del giovane Alex, il protagonista del film Arancia Meccanica, diretto da Stanley Kubrick nel 1971.

“Forse tutta la grafica con la quale abbiamo annunciato la Valentine, non è perfetta: forse si scosta molto dalla antica, famosa, favolosa, classica impostazione della Olivetti, ma spero ci sarà perdonata la presunzione — che certo non è irriverenza — per aver tentato un’apertura verso i nuovi tempi e anche verso la nuova struttura dei programmi dell’industria che affronta ogni giorno responsabilità più vaste e società più coscienti,” affermava Ettore Sottsass.

Ma l’impatto della Valentine va oltre la sua funzionalità. È la rappresentazione del desiderio di libertà di un periodo storico unico.

2022 ©Paola Cacciari

Il soldato ucraino che issò la Bandiera della Vittoria — iStorica

La Bandiera della Vittoria sul Reichstag è una delle foto più famose della storia eppure il regime sovietico nascose per anni i nomi dei suoi protagonisti e del fotografo che la scattò. Il sergente Aleksej Kovalëv era, infatti ucraino, come il fotografo ebreo Evgenij Chaldej, e il suo commilitone Abdulchakim Ismailov dagestano, etnie sgradite alContinua…

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Roe v. Wade: la sentenza che garantì il diritto all’aborto negli USA — iStorica

Due giorni fa è trapelata una bozza di sentenza della Corte Suprema americana che potrebbe abolire il diritto all’aborto negli USA. La famosa sentenza Roe v. Wade, che lo istituì nel 1973, sembra, infatti, in procinto di cadere. Roe v. Wade e il diritto all’aborto “Jane Roe” era lo pseudonimo scelto per proteggere la privacyContinua…

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The city of Bologna is often considered open-minded, tolerant, and queer-friendly. This means it provides a safe environment for members of the LGBTQ+ community, that is gay, bi, trans, or, in general, queer people. What does it mean to be gay-friendly in a country where the Catholic church is prominently represented? Walking hand in hand […]

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La Banda Mario, i “patrioti stranieri” contro il nazifascismo — iStorica

Il regime fascista li aveva presi in Africa e portati in Italia per esporli come trofei alla Triennale di Napoli. Ma molti di loro si liberarono, entrando in quella Resistenza che avrebbe abbattuto per sempre l’Impero fascista. Erano  eritrei, etiopi, libici, somali, il governo li aveva presi nelle colonie con le loro famiglie e costrettiContinua…

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