L’abbazia di Northanger: leggere attentamente le avvertenze.

Il mondo è impazzito. Lo so, questa non è una scoperta recente, che basta aprire il giornale o guardare la TV o il cellulare per essere travolti da un’incessante valanga in cui guerre, terremoti, omicidi, inondazioni e incendi, si mescolano a inflazione, rincaro dei prezzi, Russia, Cina, USA, EU e alla politica instabile ovunque. Ma che l‘Università di Greenwich, nell’omonimo quartiere di Londra abbia sbattuto un’avvertimento per contenuti sensibili su L’abbazia di Northanger (Northanger Abbey) di Jane Austen, come veicolo di “stereotipi di genere” potenzialmente inquietanti e presenti esempi di “relazioni e amicizie tossiche” mi ha fatto veramente perdere le staffe. Ho chiuso il giornale di stizza e ho cominciato a imprecare. Esagerata? Forse. Ma è stata la classica ultima goccia. Che il Cielo ci aiuti! 🤦‍♀️

Premessa: sia chiaro, io non sono contro i content warning a priori, e sono d’accordissimo che la scuola debba essere un luogo sicuro per gli studenti e nessuno vuole innescare in nessuno ricordi che evochino traumi dolorosi. E se i docenti dell’Università di Greenwich non sono stati i primi a schiaffare avvisi relativi alla presenza di contenuti sensibili su materiale di studio che potrebbe turbare gli studenti (il primato spetta ancora una volta gli Stati Uniti e all’Oberlin College, Ohio), negli ultimi dieci anni questi avvertimenti sono diventati sempre più numerosi e inventivi. E questo ci porta a Jane Austen e alla mia filippica.

Fino ad ora L’abbazia di Northanger (pubblicato postumo nel 1817) era qualche modo sfuggito all’attenzione di siti web come Trigger Warning Database, dove i lettori possono controllare gli avvertimenti forniti da altri “sopravvissuti” ai traumi della letteratura, ma lo stesso non si può dire degli altri romanzi della Austen tutti opportunamente elencati con avvertimenti che includono ‘consumo di alcol’ (Emma, Orgoglio e Pregiudizio, Ragione e Sentimento), ‘schiavitù’ (Mansfield Park), “antiziganismo” l’odio per i Rom (Emma), ‘incesto’ (Mansfield Park), ‘classismo’ (Orgoglio e Pregiudizio), ‘misoginia’ (Orgoglio e Pregiudizio), ‘adescamento implicito’ (Emma), ‘depressione’ e ‘caccia agli animali’ (Ragione e Sentimento). 😱 Mi chiedo come abbia fatto a sopravvivere fino ad ora, data la mia veneranda età e l’inevitabile fardello di esperienze (tra cui amicizie tossiche e relazioni difficili, anche se non sono mai stata abbandonata da un Capitano dell’esercito di Sua Maestà) a sopravvivere alla lettura di Jane Austen! O alla letteratura in genere! D’ora in avanti mi avvicinerò ai libri con estrema cautela, nel caso manchi il content warning per un capellino fuori moda! 😜

2023©Paola Cacciari

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Africa fashion

Il Victoria and Albert Museum ha una lunga storia in quanto a organizzare mostre di moda, e certamente da quando ci lavoro ne ho viste tante (molto spesso dall’interno, lavorandoci dentro…). Negli anni ho visto celebrare geni come Christian Dior, Balenciaga e Alexander McQueen, gli Swinging Sixties di Mary Quant, gli anni Ottanta di Club to Catwalk, e il rapporto tra moda e Natura in Fashioned from Nature e l’affascinante storia dell’abbigliamento maschile di Fashioning Masculinities, senza dimenticare accessori come borse, e scarpe e biancheria intima. Ma dalla sua fondazione nel 1852 il V&A (e per la verità nessun’altra istituzione britannica…), ha mai dedicato un’intera mostra alla moda africana.

L’artista ghanese El Anatsui ha affermato che “il tessuto è per gli africani ciò che i monumenti sono per gli occidentali”.

Il linguaggio della moda non è una novità anche nell’Occidente (vedi qui). Ma in molte culture africane il tessuto è un vero e proprio documento storico, ricco di significato simbolico

Gli anni dell’indipendenza e della liberazione africana dalla metà della fine degli anni ’50 al 1994 hanno innescato un radicale riordino politico e sociale in tutto il continente africano, anche grazie alla all’operato di OSPAAAL (Organizzazione di Solidarietà con i Popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina) l’organizzazione di solidarietà formata da movimenti antimperialisti e rivoluzionari nel Sud del mondo sull’onda della Conferenza Tricontinentale del 1966 e con sede a Cuba, e alla pubblicazione della rivista Tricontinental. Che centra Cuba con l’Africa? C’entra eccome, che Fidel Castro riteneva suo dovere intervenire militarmente in quei paesi che percepiva essere governati da un tiranno o da un despota. E nel corso della Guerra Fredda.la piccola Cuba è intervenuta in numerosi conflitti, dall’Algeria al Congo, all’Angola, in supporto di movimenti di liberazione locali, pagando un caro prezzo a livello internazionale per le sue politiche interventiste.

Tra moda, musica, arti visive, manifesti di protesta, pubblicazioni e dischi, vediamo oggetti che incarnano questa era di cambiamento radicale. Le prime pubblicazioni dei membri del Mbari Club, creato per scrittori, artisti e musicisti africani, si trovano accanto alla copertina di Beasts of No Nation di Fela Kuti, un album di chiamata alle armi che incarnava il sentimento comune di frustrazione nei confronti della politica del tempo, ma anche l’energia della creatività africana e la spinta dei suoi artisti a creare cose belle.

La politica e la poetica del tessuto considera l’importanza del tessuto in molti paesi africani e come la fabbricazione e l’uso di tessuti indigeni nel momento dell’indipendenza sia diventato un atto politico strategico. Sono presenti stampe a cera, tele commemorative, àdìrẹ, kente e bògòlanfini, esempi di tecniche provenienti da tutto il continente. In mostra c’è un tessuto commemorativo realizzato nei primi anni Novanta dopo il rilascio di Nelson Mandela, con un ritratto del futuro primo presidente nero del Sud Africa e le parole “UNA VITA MIGLIORE PER TUTTI – LAVORARE INSIEME PER LAVORO, PACE E LIBERTÀ”.

Tra i documenti storici più importanti è il ritratto dell’allora primo ministro ghanese Kwame Nkrumah che indossa un panno kente per annunciare l’indipendenza del suo Paese dal dominio britannico nel 1957. Tipico del Ghana, il kente è un tessuto a strisce di seta e cotone – ogni tessuto che porta il nome e/o un messaggio del tessitore, ragione per cui i ghanesi scelgono i tessuti kente con molta attenzione. Storicamente il tessuto veniva indossato come una toga dai reali di gruppi etnici come gli Ashanti e gli Ewe. Nel Ghana moderno, l’uso del tessuto kente si è diffuso per commemorare occasioni speciali,

Una sezione dedicata alla fotografia della metà della fine del XX secolo, cattura l’umore delle nazioni sull’orlo dell’autogoverno. L’euforia della decolonizzazione coincide con la democratizzazione della fotografia, resa possibile grazie a pellicole più economiche e fotocamere più leggere. Gli scatti documentano la modernità, il cosmopolitismo e la coscienza della moda degli individui, mentre i ritratti realizzati negli studi e negli spazi domestici sono diventati affermazioni di azione e rappresentazione di sé, visibilmente orgogliosi di essere neri e africani. I punti salienti di questa sezione includono la fotografia in studio di Sanlé Sory, Michel Papami Kameni e Rachidi Bissiriou. Gli eleganti ritratti a colori di James Barnor si affiancano anche alle fotografie domestiche di 10 famiglie raccolte dall’appello pubblico del V&A nel gennaio 2021.

Il piano superiore è dedicato ai designer e ai fotografi contemporanei, impegnati a sfidare la mancanza di sfumature nelle rappresentazioni dei musulmani neri non binari. Ma il vero fine dei creatori della mostra è abbattere strategicamente i vecchi confini coloniali

2022 Paola Cacciari

London//fino al 16 Aprile 2023

Africa Fashion @ Victoria and Albert Museum

www.vam.ac.uk

Bye bye Museum of London 👋

Oggi chiude per sempre i battenti il Museum of London. Dopo 45 anni a London Wall, nel complesso brutalist del Barbican, il Museum of London trasloca poco lontano, a West Smithfield. Riaprirà i battenti nel 2026 con un nome diverso, ma non troppo: The London Museum.
E così ieri sono andata a dire addio ad uno dei miei musei preferiti, o meglio alla sua sede così fuori moda prima che sia demolita per far posto ad un blocco di uffici. Un altro capitolo della mia vita londinese che si chiude per sempre.

War Games – (Video)Giochi di Guerra

La mostra più bella che abbia visto quest’anno, è una che non volevo vedere. Parlo di War Games: Real Conflicts | Virtual Worlds | Extreme Entertainment  all’Imperial War Museum. Non giocando a video games, semplicemente non mi interessava.

E’ stata la nostalgia. Che gli ex-adolescenti della mia generazione, ricorderanno Wargames – Giochi di guerra, il film del 1983, in cui un imberbe Matthew Broderick impersona il giovane David Lightman, studente di Seattle appassionato di informatica nonché promettente hacker. Alla ricerca di nuove sfide, il nostro eroe si introduce in quello che crede essere il computer di una nota casa di videogiochi che sta per lanciare prodotti nuovi e inizia a giocare. Fino a quando inizia, senza saperlo, una partita con lo WOPR (The War Operation Plan Response) dell’esercito americano, rischiando inavvertitamente di portare il mondo sull’orlo di un disastro nucleare. Il computer dell’epoca fa quasi tenerezza, un’ingombrante scatola di plastica e lucine, connessa al telefono. Il mio, che pure ho acquisito molti anni più tardi, non era molto diverso.

Essendo totalmente priva di interesse in ogni tipo di video gioco (i miei ricordi si fermano a Pac-Man), fatico a capire l’entusiasmo che li circonda (anche qui, i miei ricordi si fermano alla battaglia navale su carta e al Risiko). Certo, i giochi d’azione (e di guerra) sono in circolazione da molto tempo e hanno sempre avuto una relazione più stretta del previsto con gli sviluppi della guerra nella vita reale. Basti pensare al gioco degli scacchi, il gioco di strategia per eccellenza, da secoli prediletto di re e aristocratici, come mezzo per apprendere i primi rudimenti sul come muoversi, in teoria, su quella rappresentazione astratta del campo di battaglia che era la scacchiera.

Ma nei video giochi degli ultimi trent’anni la pistola e tutti i suoi derivati, fanno la parte del leone. Pare che la guerra e la violenza in genere, costituiscano un buon soggetto per un gioco. Mi sono spesso chiesta se il perché di tanto successo fosse rispondesse al bisogno atavico di sfogare odi e frustrazioni personali in un luogo “sicuro”, un po’ come i grandiosi e sanguinosi spettacoli pubblici con cui gli imperatori romani si assicuravano che la plebe sfogasse la propria rabbia al circo, piuttosto che in rivolte sociali. O forse perchè avere tra le mani una pistola finta, sia quella di un tiro a segno, o quelle di una console, ci fa sentire onnipotenti?

Nel tentativo di indagare il motivo per cui i giochi di guerra siano così popolari tra gli utenti, i curatori dell’Imperial War Museum hanno coinvolto psicologi , storici, accademici e disegnatori. E il risultato è illuminante. I video games offrono uno spazio sicuro in cui chiunque può sperimentare l’inimmaginabile: non a caso simulatori di campo di battaglia come Virtual Battlespace Four, sono usati da anni dalle forze armate di tutto il mondo, mentre i soldati che affetti da disturbo da stress post-traumatico possono tranne benefici come mezzo per elaborare il trauma. I video games, insomma, fornisco uno spazio in cui sperimentare situazioni che siamo curiosi di provare, ma che non vorremmo mai vivere nella realtà. Con i loro suoni, colori e una grafica sempre più realistica e complessa, ci risucchiano emotivamente, permettendoci di diventare il motore della storia e di trasformarci in eroi senza paura o in cecchini infallibili dalla sicurezza del nostro divano, senza farci un graffio..

A still from battle simulator Arma 3 / Arma/ Imperial War Museum

Ma si corre il rischio che questo ricreare virtualmente la guerra possa essere pericoloso, sfumi i contorni della nostra realtà, diventanti un’estensione o finisca addirittura per sostituirsi ad essa. Al punto che per alcuni può diventare difficile distinguere tra le due cose. Quando giochiamo sappiamo che la violenza è finta, possiamo ricominciare a giocare anche se nella partita precedente eravamo stati uccisi. Ma nella realtà questo è impossibile, e i giochi violenti sono spesso stati additati come i responsabili dell’aumento di sparatorie di massa, soprattutto nelle scuole americane, sebbene un rapporto dell’agosto 2015 dell’American Psychological Association non abbia trovato prove sufficienti di un legame tra i video giochi violenti e l’aumento della violenza. Ma lo stesso rapporto ha tuttavia stabilito che tali giochi portano ad un aumento dell’ aggressività.

Allora mi chiedo se, oltre alle fin troppo note (e condivise) frustrazioni della vita reale (l’austerity, la guerra in Ucraina, il rincaro dei prezzi, gli eventi della politica interna), mi chiedo se è anche per questo, o in parte ANCHE per questo, per l’aver passato troppo tempo in solitudine attaccati al computer a fingere di giocare alla guerra che la gente è emersa dal lock-down così violenta ed intrattabile?

2022 ©Paola Cacciari

London//fino al 28 Maggio 2023

Imperial War Museum

La fine di un’epoca: quella di Elisabetta II 👑

Certo che l’ho guardato il funerale della Regina. Che sarebbe stato strano vivere nell’ombelico del mondo senza condividerne un pezzo di storia così importante.

Ma tra le molteplici emozioni che che quelle immagini storiche mi hanno trasmesso – la gloriosa parata, la corona, i fiori, la bandiera che ricopre la bara contenente i resti mortali di Elisabeth II – niente come quella mano guatata che gentilmente accompagna il feretro che, sulle spalle dei soldati, sale i gradini di St George Chapel al Castello di Windsor, sembra mettere la definitiva parola FINE ai settant’anni della seconda epoca elisabettiana.

C’era una volta il biglietto di carta…

C’era una volta in un tempo lontano, quella piccola cosa che si chiamava biglietto di carta. Per andare a teatro, al cinema, ad un concerto o ad un museo, in aereo o a qualche evento sportivo, si riceveva un piccolo tagliando colorato che attestava l’avvenuta transazione e il nostro diritto si entrare nel reame (più o meno) fatato per cui ci si era dati pena di attendere in fila, e pagare.

Ricordo con affetto i distributori automatici di biglietti nell’atrio principale della Royal Festival Hall o del National Theatre. Prenotavo spettacoli e concerti da casa e quando passavo da quelle parti, inserivo la mia carta di credito e la macchinetta si metteva in moto, stampando allegramente i miei biglietti per gli eventi per i mesi a venire. Riponevo quei tesori in una busta e ogni tanto li andavo a guardare, pregustando gioie future: una soddisfazione pazzesca.

Poi è arrivato il Covid e, quella che già era una tendenza diffusa, ma opzionale (che si poteva scegliere tra il biglietto fisico e quello digitale) è divenuta standardizzata a Londra. Certo, consentendo di effettuare la transazione senza alcun contatto, l’e-ticket e il QR code necessario per il sistema Test and Trace del governo, hanno permesso a musei, teatri, negozi e ristoranti e di riaprire cautamente le porte al pubblico nel bel mezzo della pandemia. Che al giorno d’oggi, poiché anche lo smartphone più basilare può scaricare e visualizzare gli e-ticket, non è necessario stamparli, sono più economici, sostenibili e non si perdono nella posta o tra le pile di carta della scrivania…

Ma a livello emotivo, non sono la stessa cosa. Almeno non per me che da quando ero piccola conservo i biglietti delle cose che faccio, degli spettacoli a cui vado, delle mostre che vede. Biglietti che trovano posto su l’album di ritagli del momento, insieme a qualche nota personale, e che mi piace riguardare ogni volta che mi sento nostalgica. Stampare i biglietti digitali non ha senso – vanifica l’idea stessa della sostenibilità. E comunque non è la stessa cosa.

E se i vantaggi della tecnologia e digitalizzazione che ci separano da certi oggetti fisici ormai considerati obsoleti come i CD, i DVD, le musicassette e i biglietti di carta appunto – bisogna convenire che guardare con aria sognante un codice a barre, non da’ certo la stessa soddisfazione del rigirare tra le mani un colorato biglietto stropicciato. Che difficilmente un QR code sarà in grado di sollecitare nel nostro cervello quelle epifanie sensoriali che Proust chiamava memoria involontaria, in grado di restituirci un ricordo intatto, insieme alle sensazioni fisiche che si erano provate, gli odori, i colori, i suoni…

Il soldato ucraino che issò la Bandiera della Vittoria — iStorica

La Bandiera della Vittoria sul Reichstag è una delle foto più famose della storia eppure il regime sovietico nascose per anni i nomi dei suoi protagonisti e del fotografo che la scattò. Il sergente Aleksej Kovalëv era, infatti ucraino, come il fotografo ebreo Evgenij Chaldej, e il suo commilitone Abdulchakim Ismailov dagestano, etnie sgradite alContinua…

Il soldato ucraino che issò la Bandiera della Vittoria — iStorica

Roe v. Wade: la sentenza che garantì il diritto all’aborto negli USA — iStorica

Due giorni fa è trapelata una bozza di sentenza della Corte Suprema americana che potrebbe abolire il diritto all’aborto negli USA. La famosa sentenza Roe v. Wade, che lo istituì nel 1973, sembra, infatti, in procinto di cadere. Roe v. Wade e il diritto all’aborto “Jane Roe” era lo pseudonimo scelto per proteggere la privacyContinua…

Roe v. Wade: la sentenza che garantì il diritto all’aborto negli USA — iStorica