Sebbene la scuola di arte e design Bauhaus sia esistita per soli 14 anni, la radicale novità del suo approccio “olistico” nei confronti del processo creativo continua a riecheggiare ancora oggi nell’arte contemporanea, nell’architettura e nella progettazione, grafica e non.
Così, visto che quest’anno la celeberrima istituzione tedesca compie cento anni, ho pensato di ripubblicare questo articolo che ho scritto nel 2012 per Artribune in occasione della grande retrospettiva della Barbican Art Gallery.
Buona lettura!
In mostra a Londra la straordinaria avventura del Bauhaus, scuola d’arte per eccellenza. Dalla fondazione alla chiusura, nel 1933, con l’arrivo del nazismo. Un percorso straordinario, che testimonia della sua estrema attualità. Al Barbican Center di Londra fino al 12 agosto.
Bauhaus, Erich-Consemuller. Barbican
Già nell’Ottocento, William Morris, con le sue Arts and Crafts, aveva cercato di portare la bellezza alle masse. Come Morris, anche Walter Gropius (Berlino, 1883 – Boston, 1969) pensa che l’industria non debba essere nemica dell’artista (o meglio, del progettista), ma sua alleata, e che il prodotto creato non deve essere privilegio dei pochi, ma accessibile a tutti. Ed è su queste basi che nel 1919 riorganizza l’Accademia delle Belle Arti e la Scuola di Arti Applicate di Weimar nel Bauhaus.
In questa “casa della costruzione”, teoria e pratica, arte e artigianato hanno un unico scopo: riscattare l’oggetto d’uso dall’appiattimento della produzione industriale. È la Gesamtkunstwerk
Ogni tanto mi piace guardare indietro, tra le cose che ho scritto su argomenti che mi stanno a cuore, e riproporre qualcosa qui e li’… Oggi ho ritrovato questo articolo sulla National Gallery e la collezione di Denis Mahon.
Un regalo dall’aldilà. Cento milioni di sterline in dipinti barocchi donati alla Gran Bretagna. Ma a una condizione: i musei devono rimanere gratis. La collezione di Denis Mahon, storico dell’arte e collezionista, è stata finalmente donata.
È ufficiale: la splendida collezione di pittura barocca appartenuta a Sir Denis Mahon (1910-2011), storico dell’arte, collezionista, filantropo e appassionato sostenitore dell’ingresso gratuito ai musei pubblici, è stata formalmente donata alla Gran Bretagna. Un lascito permanente ai musei inglesi in accordo con i desideri del suo energico proprietario. Ma a una condizione: che tutti coloro che amano l’arte possano vederla. Gratis.
Un annuncio questo fatto il 19 febbraio scorso [2013] alla National Gallery di Londra che, con venticinque dipinti, è la maggiore beneficiaria della generosità di Mahon.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, curatore volontario, nel 1936 Mahon offrì un Guercino al museo londinese (Elia nutrito dai corvi, comprato a Roma due anni prima per 200 sterline) per poi vederselo rifiutare dall’allora direttore Kenneth Clark che, seppure apprezzando la qualità del dipinto, non ritenne opportuno neppure menzionarlo ai membri del comitato di gestione dell’istituzione, tale era all’epoca la mancanza di interesse nell’arte italiana del XVII secolo. Il tapino non poteva immaginare che sessant’anni dopo lo stesso dipinto sarebbe stato stimato circa 4 milioni di sterline. Fortunatamente, Mahon non si lasciò scoraggiare da quell’insuccesso e avendo capito che i tempi non erano maturi, decise di collezionare lui stesso i dipinti e di tenerli con sé fino a quando i musei nazionali non avessero compreso (e apprezzato) il suo gusto. Cosa che infatti è avvenuta, grazie anche (e soprattutto) all’instancabile impegno dello stesso Mahon.
Ora questa collezione di capolavori del Barocco italiano, che comprende nomi illustri come Guercino, Guido Reni, Domenichino, Ludovico Carracci, Luca Giordano, Pietro da Cortona, Giovanni Antonio Pellegrini e Giuseppe Maria Crespi (solo per citarne alcuni), e il cui valore complessivo alla morte del collezionista era di circa cento milioni di sterline, sarà ospitata in sede permanente in sei musei e gallerie britanniche, secondo il desiderio di Mahon. Otto presso le National Galleries of Scotland di Edimburgo, venticinque alla National Gallery di Londra, dodici all’Ashmolean Museum di Oxford, sei al Fitzwilliam Museum di Cambridge, cinque alla Birmingham Museums and Art Gallery e una a Temple Newsam House di Leeds. Ma è un dono, questo, fatto a una precisa condizione: qualora le istituzioni in questione dovessero decidere di re-introdurre l’ingresso a pagamento, i lasciti sarebbero immediatamente revocati e i dipinti ritirati. La stessa cosa accadrebbe se tentassero di vendere quadri appartenenti alle collezioni permanenti. Mahon ha sempre avuto le idee chiare sui fruitori della sua collezione, e giá nel 1999 annunciò che la sua raccolta sarebbe passata in mani pubbliche e che alla sua morte (avvenuta nel 2011 alla veneranda eta di cent’anni) l’amministrazione delle opere sarebbe stata trasferita all’Art Fund con le precise disposizioni che fosse esposta permanente in Gran Bretagna.
L’eliminazione dell’ingresso a pagamento a musei e gallerie nazionali britanniche (introdotto in epoca thatcheriana) da parte del governo di Tony Blair nel 2001 come parte di un piano per estendere l’accesso al patrimonio culturale della nazione a un publico più vasto, ha visto nel corso di un decennio quasi raddoppiare il numero di visitatori dei musei nazionali. Secondo un sondaggio condotto da Museum Association, durante il primo anno dall’introduzione dell’entrata libera, il numero di visitatori del Victoria & Albert Museum è aumentato del 111% portandolo da 1.1 milioni a 2.3 milioni. E le cifre hanno continuato a salire in tutto il Paese. Da allora l’ingresso gratuito ai musei nazionali è diventato una parte fondamentale della vita culturale britannica, tanto da portare il Segretario alla Cultura Jeremy Hunt ad affermare che “la cultura è di tutti, non solo di pochi fortunati” e di essere particolarmente orgoglioso dell’aver garantito il futuro dei musei gratuiti, nonostante l’attuale clima finanziario.
Ma quelli attuali sono tempi difficili e il principio di mantenere l’ingresso gratuito costa caro. I musei britannici (e gli organi che li sostengono) hanno dovuto prendere decisioni difficili, ma hanno preferito tagliare il personale amministrativo pur di mantenere un servizio di fama internazionale. Mahon aveva previsto tutto questo e sapeva che la minaccia dei tagli alla cultura avrebbe continuato a pendere sulle ricchezze dei musei come una spada di Damocle.
Così inventò un ingegnoso meccanismo, la cui attuazione, dopo la sua morte, fu opportunamente affidata alle mani dell’Art Fund. Un meccnismo che ha il sapore di un ricatto. “Un ricatto” disse allora Mahon, “of course, pro bono publico.”
La sua fiera opposizione all’idea che il pubblico paghi per vedere qualcosa che gli appartiene di diritto, ha spinto Mahon a non donare direttamente nessuno dei 57 capolavori ai musei: le opere sono state lasciate in custodia all’Art Fund, che ha giurato di portare avanti le idee e i principi morali dello storico dell’arte. Fondato nel 1903, The Art Fund(in precedenza chiamato National Art Collections Fund) è un’organizzazione indipendente (non riceve aiuti da parte del governo o della Lotteria Nazional, ma affida la sua sopravvivenza agli abbonamenti di soci e donazioni pubbliche) e il cui scopo è raccogliere di fondi per aiutare l’acquisizione di opere d’arte per la nazione. L’Art Fund (di cui Mahon fece parte dal 1926 fino alla morte) oltre a concedere sovvenzioni e ad agire per conto di musei e gallerie d’arte e dei loro utenti, funge anche da canale per donazioni e lasciti. Non sorprende pertanto che Sir Denis abbia visto in questa organizzazione il custode ideale della sua collezione, nonché un fidato esecutore dei suoi desideri. Stephen Deuchar, il direttore, ha dichiarato: “Sir Denis Mahon è stato per tutta la vita un sostenitore dell’Art Fund e ha condiviso il nostro impegno di ampliare l’accesso pubblico gratuito all’arte. La sua visione come collezionista d’arte è stata straordinaria, come lo è stata la sua determinazione nel sostenere che la sua collezione dovesse essere visibile a tutti”. “È ancora un principio importante” continua Deuchar, “perché l’ingresso a pagamento costituisce una barriera”.
La donazione Mahon
Nato a Londra nel 1910 e figlio di John FitzGerald il Mahon, un membro della famiglia che aveva prosperato della banca d’affari Guinness Mahon, Sir John Denis Mahon ha amato il Barocco quando era terribilmente fuori moda in Inghilterra. Una laurea a Oxford nel 1933, poi il nuovo Courtauld Institute di Londra, dove l’incontro con Nikolaus Pevsner, di cui seguì le lezioni sul Barocco italiano, lo porta a specializzarsi nello studio di Giovan Francesco Barbieri, detto il Guercino. Fu nel 1934, durante in viaggio in Francia, che Mahon vide nella vetrina di un mercante d’arte parigino un quadro che riconobbe come un importante capolavoro perduto del Guercino. Non ebbe esitazioni e lo comprò, assicurandosi per sole 120 sterline il suo primo capolavoro. Si trattava di Giacobbe benedice i figli di Giuseppe. È l’inizio di una strepitosa avventura che dalla Gran Bretagna lo porta in Europa e da lì in Italia, a Bologna, Cento e a Ferrara, sulle tracce del Barocco italico. Nasce così, poco alla volta, la sua straodinaria collezione di opere italiane Seicento; una collezione formata nel corso di varie decadi.
Essendo ancora negli anni Trenta la critica d’arte anglosassone tutta impregnata delle idee di John Ruskin che disprezzava il Barocco e sosteneva che dopo il Rinascimento c’era stato più nulla, Manhon non spese mai per i suoi quadri più di 2000 sterline l’anno. E la cifra più alta pagata dallo studioso per un singolo quadro furono 2000 sterline per La presentazione al Tempio (1623), sempre di Guercino, comprato nel 1953. Un’enormità se si pensa che per alcuni disegni dello stesso Guercino aveva pagato 10 sterline. Poco più di un biglietto giornaliero della metropolitana.
“I am going to take you on journeys you never knew were possible. There is no way back for me now”. Ed è questo senso del viaggio, dell’entrare nella mente di un creatore straordinario come Alexander McQueen, che fa di “Savage Beauty” una mostra diversa da ogni altra dedicata alla moda. Dal MoMA al Victoria and Albert, per la mostra dell’estate.
NASCITA E MORTE DI UN ARTISTA
Nato a Lewisham e cresciuto nell’East End, Alexander “Lee” McQueen (1969-2010) è il figlio di un taxista e di un’insegnante che sin da bambino vuole creare abiti. Lasciata la scuola all’età di quindici anni, diventa apprendista in Savile Row, il tempio della moda maschile britannica, prima di trasferirsi a Milano per un breve periodo per lavorare da Romeo Gigli. A Londra, dove era tornato nel 1992, completa quasi per caso un master in Fashion Design alla Saint Martin’s School of Art dove era approdato cercando un lavoro, ufficializzando così la sua metamorfosi da sarto altamente competente e creativo a stilista di moda. Diventa direttore creativo di Givenchy al posto di John Galliano nel 1996, a soli 27 anni (dove rimarrà tra alti e bassi fino al 2001) e vince il British Designer of The Year, il premio come migliore stilista inglese dell’anno, per quattro volte. La sua carriera sembra inarrestabile ed è all’apice del successo quando nel 2010, a soli quarant’anni e devastato dalla morte della madre che adora, McQueen si toglie la vita lasciando di sasso il mondo della moda.
LA MOSTRA AL VICTORIA AND ALBERT
Ora la grande retrospettiva del MoMA di New York, che nel 2011 ha visto la folla attendere pazientemente in fila per ore, è arrivata al Victoria and Albert Museum, più grande e più ricca che mai. E con una sala dedicata a Londra, città e musa di McQueen, che ospita i dieci pezzi della sua collezione di laurea del 1992, intitolata Jack the Ripper Stalks His Victims. “Ho passato molto tempo a imparare come costruire abiti,” amava ripetere lo stilista. “È importante se poi li si vuole smontare”.
E basta guardare le sue creazioni, che combinano storicismo e modernità e infrangono ogni regola pur mantenendo intatte le tecniche sartoriali tradizionali, per capire di cosa stesse parlando. I suoi abiti sconfinano nell’arte e nel teatro e ricordano le opere di un altro enfant terrible britannico, Damien Hirst. Non a caso, visto che per età ed esperienze, McQueen era vicino a molti degli YBAs, i quelli della “Sensation Generation” degli Anni Novanta. Non solo lo stilista esplora lo stesso territorio artistico di Hirst, Tracey Emin e dei fratelli Jake e Dino Chapman, ma li frequenta, compra le loro opere e soprattutto condivide la loro volontà di stupire. […]
Ogni tanto mi piace guardare indietro e riproporre post di mostre ed eventi che ho particolamente amato. Oggi e’ la volta di Life and death in Pompeii and Herculaneum, una bellissima mostra tenutasi al British Museum nel 2013.
Vivo a Londra da 14 anni e non sono mai stata a Pompei ed ad Ercolano. Lo so, è una vergogna. E così in mancanza d’altro ieri sono stata con la mia dolce metà al British Museum a vedere una delle mostre più spettacolari degli ultimi tempi. L’ho detto anche l’anno scorso della mostra su Shakespeare (davvero strepitosa), ma anche questa Life and death in Pompeii and Herculaneumnon è da meno. Soprattutto in un periodo storico disgraziato come questo dove, oltre all’economia, anche i siti archeologici del Bel Paese stanno lentamente cadendo a pezzi. Un fato, quello dell’incuria e della mancanza di fondi, che come ben si sa non ha risparmiato neppure Pompei e che per questo motivo rende una mostra come questa particolarmente emozionante. Troppe brutte notizie negli ultimi tempi: era ora che si riportassero gli occhi del mondo sull’Italia per ragioni diverse del bunga-bunga di Berlusconi. Ma ammetto che da italiana quale sono, pare una cosa strana che a fare questo sia un museo inglese invece che il Governo italiano. Comunque.
La devastazione e allo stesso tempo la conservazione di Pompei ed Ercolano hanno affascinato il mondo da quando, nella prima metà del XVIII secolo, iniziarono gli scavi nei due siti. Pompei, una città di circa 20.000 abitanti, fu coperta da cenere e pomice così rapidamente che molti residenti morirono nelle loro case. A Ercolano, piccola e sofisticata località marittima più vicina al vulcano, l’ondata piroclastica fu l’unica causa di morte: la popolazione fu semplicemente annientata. Ma proprio la loro diversa posizione geografica e il modo diverso in cui le due località furono sepolte, ne ha influenzato la conservazione. E così mentre Ercolano ci ha restituito mobili carbonizzati e parti strutturali di edifici, Pompei ha preservato gli affreschi e i calchi dei corpi che tutti conoscono. Unendo per la prima volta gli oggetti trovati in entrambe le città, Paul Roberts ha imbastito questa affascinante panoramica della vita quotidiana pre-eruzione. Una quotidianità vista attraverso la sua espressione più universale: l’abitazione.
E per un’appassionata di storia sociale come la sottoscritta, questo è un invito a nozze. Quella che la mostra vuole ricreare è una casa romana ispirata alla Casa del Poeta Tragico. Una casa affacciata su una strada su cui si aprono botteghe e taverne dai nomi evocativi e divertenti, composta da un atrium con il celebre mosaico del Cave Canem, il cane al guinzaglio che vegliava l’ingresso della Casa di Orfeo a Pompei (forse lo stesso famosissimo cane del calco in gesso posto all’entrata della mostra), da un cubiculm, un triclinium e la culina – con pane, fichi e datteri vecchi di duemila anni. Il mio preferito è il rigoglioso hortus conclusus della Casa del Bracciale d’Oro di Pompei, i cui affreschi di piante a uccelli gentilmente “prestati” a Roberts dai colleghi della Sovrintendenza sono così reali da mozzare il fiato.
È una realtà multiculturale e socialmente mobile quella di Pompei ed Ercolano, in cui si muovono liberti provenienti da ogni parte dell’impero e in cui donne come la moglie del fornaio Terenzio Neo sono attive e visibili a tutti i livelli della società. La bellezza di questo ritratto è incredibile. Sono giovani e belli, hanno status, hanno una vita intera davanti a se’. Guardando quei volti sereni che sappiamo già condannati, uno spera – una speranza del tutto irrazionale – che quel giorno d’estate del 79 d.C. Terenzio e sua moglie siano in qualche modo riusciti a sfuggire al loro destino.
Tuttavia camminando tra oggetti quotidiani così lontani nel tempo eppure a noi così vicini nell’uso – una panchina da giardino, una pagnotta, una culla – quella che ci accompagna per le stanze di questa casa-mostra non è la morte, ma una vita ricca e pulsante di una civiltà a misura d’uomo. Una civiltà che non demonizzava i piaceri, ma li faceva suoi.
È solo alla fine del percorso, quando sono arrivata davanti ai calchi in gesso di quelle che una volta erano persone e che ora sono solo figure tragiche immerse nella penombra – fantasmi usciti da un girone dantesco- che mi è venuto un groppo alla gola. Un padre, una madre, due bambini. Chissà, forse erano gli stessi monelli che avevano inciso con un punteruolo guerrieri e animali sui meravigliosi affreschi della sala da pranzo nella Casa del Criptoportico. Ed è stato allora ho capito in pieno cosa intendeva dire Paul Roberts, il curatore, quando diceva che noi “siamo abituati a vedere i romani come l’imperatore, il soldato, il gladiatore, ma la maggioranza erano gente come noi”. Ha ragione. E quest’enfasi sulla quotidianità dona alla mostra una dimensione completamente diversa, certamente più vera. Applausi.
La mostra della Courtauld Gallery di Londra – fino al 25 maggio – si potrebbe riassumere con il famoso motto di Mies van der Rohe, “less is more”. Per soggetti come la stregoneria e la vecchiaia possono venire in mente molti aggettivi: “bello” è un termine che non molti userebbero. A meno che l’aggettivo in questione non si riferisca agli incubi in bianco e nero di Francisco Goya…
Pittore, disegnatore e incisore, vissuto a cavallo tra il secolo dei Lumi e il Romanticismo, Francisco José de Goya y Lucientes (Fuendetodos, 1746 – Bordeaux, 1828) è da sempre considerato il primo artista moderno. Noto come “Apelle della Spagna” già dal 1801, durante i sei decenni della sua carriera ha servito tre generazioni di re spagnoli, producendo circa 700 dipinti, 900 disegni e quasi 300 stampe. Una produzione immensa, la sua, con cui sembra voler fissare sulla carta un mondo che sta cambiando troppo in fretta. Nei suoi ottantadue anni di vita, infatti, Goya vive in prima persona l’Illuminismo, l’occupazione francese, il regno dispotico di Ferdinando VII (e l’Inquisizione) e la guerra d’indipendenza spagnola.
Nato in un piccolo paese dell’Aragona, quarto di sei fratelli, Goya diventa il pittore prediletto da aristocratici e reali di Spagna. Ma in seguito a una grave malattia che lo colpisce all’età di cinquant’anni e che lo lascia praticamente sordo, la sua opera assume un tono più scuro e malinconico. La convalescenza è lunga e Goya disegna per passare il tempo, riempiendo otto album, ognuno di essi associato dagli studiosi a una lettera dalla A alla H. Quelli dell’Album D costituiscono il soggetto centrale di Goya: The Witches and Old Women Album, la nuova mostra della Courtauld Gallery.
Una delle certezze dell’estate londinese, la Summer Exhibition è ancora oggi un obiettivo prestigioso per ogni artista che si rispetti. Ma nella Londra del primo Ottocento la mostra annuale della Royal Academy era il culmine di un anno di duro lavoro: poteva consacrare un artista. O distruggerlo. In quest’atmosfera così competitiva, i pittori non esitavano a ricorrere a ogni sorta d’inganno per ottenere un vantaggio. Ne sanno qualcosa William Turner (Londra, 1775 – Cheyne Walk, 1851) e John Constable (East Bergholt, 1776 – Londra, 1837), che nel 1832 videro le loro tele esposte una a fianco all’altra.
Immaginate Turner che osserva preoccupato Constable applicare gli ultimi ritocchi di rosso al suo imponente The opening of the Waterloo bridge. Accanto alla vibrante tela del rivale, il suo Helvoetsluys sembra piatto e monotono. E allora abbandona la sala in tutta fretta per poi ritornare pochi minuti dopo con la sua tavolozza e piantare una pennellata di rosso fiammeggiante sul grigio del mare. La macchia diventa una boa ondeggiante nelle acque del porto. Un gesto che trasforma un altrimenti banale paesaggio marino in un capolavoro. E che farà esclamare allo sgomento Constable: “È stato qui, e mi ha tirato una fucilata”. Inutile dire che la mostra fu un fallimento per Constable e un successone per Turner. Se i due non si detestavano già, quello fu il momento in cui iniziarono.
Nati a un solo anno di distanza, questi due giganti del paesaggio britannico sono diversi per fisico e per temperamento. Personaggio eccentrico e solitario, Turner è l’ambizioso figlio di un barbiere di Covent Garden, determinato a diventare un pittore grande come Claude Lorrain. Basso, rozzo e grassoccio, non si sposò mai, preferendo la compagnia dei suoi pennelli a quella di altri esseri umani. L’esatto opposto di Constable (bello, elegante, raffinato, marito e padre felice) che, nato in una famiglia della ricca borghesia di campagna della contea del Suffolk e destinato a una carriera nell’azienda di famiglia, si scopre pittore quasi per caso.
Ciò che li accomuna – oltre al fatto di aver entrambi studiato alla Royal Academy (anche se Turner ne diventa membro a tutti gli effetti nel 1802, a soli ventisette anni, mentre Constable deve aspettare i cinquantatré) e che entrambi non sembrano essere in grado di rappresentare la figura umana – è il modo in cui guardano al paesaggio cercando di catturarne lo spirito anziché l’esatta topografia. Turner si concede enormi licenze poetiche per trasmettere uno stato d’animo; Constable si sforza di raccontare la natura così come la vede. Veduta emozionante versus veduta emozionata, direbbe Argan. Ma chi ha ragione?
Quella sul chi sia il più grande paesaggista britannico è una diatriba vecchia di centocinquant’anni, che proprio in questo periodo è stata rinvigorita da due grandi mostre proposte dalla Tate Britain e dal Victoria and Albert Museum. Certo, se Constable era l’eroe di Lucien Freud, quando si è trattato di scegliere tra i due artisti, il regista Mike Leigh non ha avuto esitazioni: al contrario di quella di Constable, la vita di Turner fu un continuo tumulto di passioni, esperienze, viaggi e incontri. Un perfetto soggetto per un film, insomma. E visto il successo che il film Mr Turner sta riscuotendo al botteghino, il grande pubblico pare ancora dargli ragione.
Era il luglio del 2013 quando Thomas Heatherwick – l’architetto autore dell’incredibile braciere delle Olimpiadi di Londra 2012 e dei nuovi Routemaster, gli autobus rossi a due piani che sono una delle caratteristiche della Capitale – e l’attrice/attivista Joanna Lumley hanno unito le loro forze per regalare a Londra un nuovo ponte. E se l’idea di un ponte-giardino completo di erba, alberi, fiori e piante selvatiche che offra un’alternativa al traffico e all’inquinamento degli altri ponti è partita dalla Lumley, Heatherwick non ha esitato a cogliere al volo un’occasione per regalare a Londra un altro stupefacente progetto. Inutile dire che i due insoliti alleati hanno trovato nel sindaco Boris Johnson un entusiasta sostenitore, e proprio questi giorni è stato dato da Westminster il via libera al progetto. “L’idea è semplice”, dice Heatherwick: “collegare il Nord e il Sud di Londra con un giardino”. Un giardino a tutti gli effetti, dotato di circa 270 alberi che rappresentano 45 specie, cespugli, piante rampicanti, siepi e fiori: un’iconica infrastruttura verde sul modello della High Line di New York, il parco realizzato nel West Side di Manhattan sul sito di una ferrovia soprelevata in disuso. Strategicamente inserito tra quelli di Waterloo e Blackfriars, il nuovo ponte – il primo dall’apertura del tanto discusso Millennium Bridge nel 2002 – non solo creerebbe un nuovo collegamento pedonale tra aree densamente popolate come Covent Garden e Soho e i tratti relativamente tranquilli della riva Sud del Tamigi, ma fornirebbe un’ulteriore via di attraversamento del fiume ai pendolari diretti alla stazione di Waterloo. Ma il via libera dipende dalla capacità di Heatherwick Studio – impegnato nello sviluppo dell’idea con gli ingegneri della ditta Arup – di raccogliere da sponsor privati i 65 milioni di sterline necessari alla realizzazione del progetto visto che la Greater London Authority, l’ente che amministra i 1579 km² della capitale, è determinato a non utilizzare denaro pubblico. E senza l’intervento dei finanziamenti privati il progetto, che costa 175 milioni di sterline, non potrà partire. Ma le cose promettono bene. Il Garden Bridge Trust, l’organizzazione benefica che sovrintende la realizzazione del progetto, ha già promesso 30 milioni di sterline così come Transport for London, responsabile della gara di appalto volta a trovare nuove idee per migliorare l’accesso pedonale sul fiume (appalto vinto da Heatherwick), e il Ministero del Tesoro. Una volta trovati i fondi necessari, i lavori di costruzione del ponte potrebbero iniziare già nel dicembre 2015 con il ponte aperto al pubblico nell’estate del 2018. –
Almine Rech Gallery, Londra – fino al 27 luglio 2014. La prima cosa che colpisce varcando la soglia del nuovo spazio londinese di Almine Rech è la luce. Una luce chiara che entra abbondante dalle grandi finestre che si affacciano sull’elegantissima Savile Row, al primo piano di un magnifico palazzo settecentesco nel cuore di Mayfar.
Dopo aver conquistato Parigi e Bruxelles, la gallerista francese Almine Rech conquista Londra, inaugurando il suo terzo spazio con questa elegante collettiva curata da Natacha Carron. Dodici opere, cinque figure chiave del modernismo italiano (Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Dadamaino, Turi Simeti e Paolo Scheggi) e un italianissimo titolo (Pittura Oggetto, dalla felice definizione coniata a suo tempo da Gillo Dorfles) non lascia dubbi sull’Italian feeling della mostra londinese.
L’interesse di Almine Rech per il panorama artistico del dopoguerra italiano non è nuovo, avendo già in passato dedicato mostre che avevano visto Castellani e Bonalumi tra i protagonisti. Ma nello spazio intimo e raccolto di Savile Row la collettiva acquista una nuova freschezza, diventa dialogo tra passato e presente. “Il collegamento è Lucio Fontana e il luogo è Milano”, spiega Natasha Carron. L’effervescente clima della Milano degli Anni Sessanta fa infatti da sfondo alla rivoluzione sviluppata da questi artisti e che li porta a lavorare e ad agire, invece che su di un supporto, sul supporto stesso.
Tate Modern, Londra – fino al 7 settembre 2014. Tutte le sagome di carta di Henri Matisse, riunite in una grande e affascinante mostra. Oltre 120 opere, fragili e potenti, prodotte tra il 1943 e il 1954. Un evento da non perdere.
Le forbici tagliano la carta con la destrezza di un sarto esperto. Non un’esitazione, non un ripensamento: pare quasi di sentire il rumore delle lame mentre, dalla carta irrigidita dagli strati di colore, emergono le sagome per i suoi découpage. D’altronde Henri-Émile-Benoît Matisse (Le Cateau-Cambrésis, 1869 – Nizza, 1954) nato in una famiglia di mercanti di stoffe e di tessitori nel cuore industriale della Francia nord-orientale, sin dall’infanzia è sempre stato bravo con le forbici. Il filmato di Adrien Maeghtche, che apre Matisse: The Cut-Outs la magnifica retrospettiva alla Tate Modern, non fa che confermarlo. Grande è la soddisfazione di Nicholas Serota, il direttore del museo londinese che con Nicholas Cullinan del Metropolitan di New York ha curato la mostra, per aver riunito nella capitale britannica oltre 120 di questi fragili papiers découpé creati da Matisse tra il 1943 e il 1954. Ridotte all’inizio, le dimensioni delle sagome di carta aumentano con il passare del tempo, via via che ci si addentra nel percorso della mostra. Dalle tavole di Jazz, il libro d’artista pubblicato nel 1947 dall’editore parigino Tériade in sole 250 copie, alla luminosa vetrata Notte di Natale (1952) appartenente alla decorazione creata per la Cappella del Rosario a Vence, l’esplosione dei colori primari nelle composizioni di Matisse è inversamente proporzionale all’aggravarsi della sua malattia e al suo declino fisico. Pittore, incisore, illustratore, stampatore e scultore, Matisse non è nuovo all’uso di queste forme ritagliate dalla carta per pianificare e creare le sue opere. Ma è solo dal 1941, quando un grave intervento chirurgico per rimuovere un tumore all’intestino gli impedisce di dipingere al cavalletto, che queste “sagome” diventano opera d’arte indipendente. Confinato su una sedia a rotelle, Matisse si inventa un modo per creare con le forbici. Come il suo primo periodo di prolungata convalescenza nel 1890 lo aveva avvicinato alla pittura, così il secondo segna l’inizio della sua “seconda vita”: impossibilitato ad uscire, l’artista porta il giardino dentro casa trasferendo sulle pareti del suo appartamento di Nizza il colorato universo della sua anima.
National Portrait Gallery, Londra – fino al 1° giugno 2014. Stardust. Polvere di stelle. E di stelle che brillano sulle pareti della National Portrait Gallery ce ne sono oltre duecentocinquanta: da Kate Moss, che ci accoglie all’ingresso, a Michel Caine, David Bowie e Damien Hirst. Attori, scrittori, musicisti, registi, icone della moda e dello stile, artisti e altri fotografi, oltre a persone incontrate nei suoi viaggi. Sono i ritratti di David Royston Bailey.
Catapultato nel mondo delle stelle negli anni Sessanta quando approda a British Vogue, David Royston Bailey (Londra, 1938) fatica a staccarsi di dosso l’etichetta di fotografo della Swinging London. Un’immagine amata/odiata quella del mondo della moda e che ha ispirato il personaggio interpretato da David Hemmings nel celeberrimo Blow-Up (1966) di Michelangelo Antonioni. Un’immagine che tuttavia proprio Bailey stesso ha contribuito a creare con il suo Box of Pin-Ups (1965): trentasei stampe formato poster di personaggi famosi dell’epoca che includono nomi come Andy Warhol, Cecil Beaton, Rudolf Nureyev, Jean Shrimpton, oltre ad un giovanissimo Mick Jagger immortalato all’inizio della sua carriera avvolto in un cappuccio di pelliccia. Fotografati sotto una luce tagliente contro uno sfondo bianco, senza trucchi e con pochi oggetti di scena, emanano carisma all’ennesima potenza.
Lo stesso carisma che si ritrova nelle immagini di Black and White Icons. Dai Queen agli U2, da Bob Geldof a Meryl Streep: in questa carrellata di facce famose non manca davvero nessuno, neanche lo stesso Bailey, di cui ci sono diversi ritratti. Tra gli scatti più riusciti, quelli che ritraggono un rilassato Johnny Deep o un sorridente Jack Nicholson, attori che Bailey ammira in modo particolare e a cui è legato da una lunga amicizia.
Ma c’è di più oltre a Bailey fotografo delle stelle e la National Portrait Gallery è ansiosa di dimostrarlo. Per questo gli ha dato libertà assoluta di scegliere e di allestire le sue foto come preferisce. E Bailey ha scelto un approccio tematico piuttosto che cronologico, raggruppando le sue immagini in diciannove categorie suddivise per tema, epoca o formato. Immagini di grandi come poster o piccole come cartoline illuminano di vita le pareti bianche dello spazio principale della galleria londinese che per l’occasione ha concesso a Bailey tutto il primo piano, rimuovendo le opere della collezione permanente. E e se spesso questo allestimento tematico è confuso, quando funziona provvede un’altalena di emozioni del tutto inaspettata. Come quando passa dal patinato mondo dei Rolling Stones e di Vivienne Westwood alle immagini dei reportage di viaggi in Australia e Papua Nova Guinea, da Delhi alla moglie Catherine Bailey, o da Maurizio Cattelan impegnato a fare le boccacce alle immagini scattate in Sudan come inviato del Live Aid nel 1985, queste ultime in particolare, un brusco richiamo alla realtà.
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