Un anno intenso

Mentre il pianeta brucia e i suoi abitanti si scannano a vicenda, un’altro anno è passato: vedere la storia srotolarsi sotto i propri occhi non è poi cosi esaltante come può sembrare a leggerla sui libri anni dopo. Anzi. Da parte mia ho cercato di sopravvivere alle news razionando la dose di brutte notizie, che ho due patrie di cui preoccuparmi, io – l’Italia e la Gran Bretagna. E tra tutte e due, ce n’è abbastanza per deprimere un elefante (se i gentili pachidermi si deprimono). Così ho fatto cose e ho visto gente (come dice Nanni Moretti in Ecce Bombo). Molte cose, e molta gente. In pratica, ho fatto tutto fuorché scrivere questo blog.

Ho letto molti libri, una sessantina a sentire Goodreads, ho visto tante mostre incredibili, inclusa quella che Sotheby’s New Bond Street ha dedicato a Freddie Mercury prima di mettere in vendere il contenuto dell’incredibile collezione della sua casa londinese di Garden Lodge.  Ho visto tanto teatro, ascoltato tanta musica e ho gioito di quanta bellezza l’arte può donare all’anima. Ho anche finito di vedere The Crown ed ora mi sento in qualche modo orfana. Soprattutto ho fatto uno sforzo per essere socievole, e vedere di più amici e colleghi-amici, invece di dire sempre “forse” e poi non farlo. E mi è piaciuto. Forse anche per questo non ho scritto molto.

Ho esplorato parti dell’Inghilterra che non avevo mai visto e mi ancora una volta mi sono stupita del lavoro della natura, e di quello dell’uomo quando non è troppo impegnato a farsi la guerra; sono andata in vacanza con il mio compagno, per la prima volta dopo la pandemia. A Santorini, la più greca delle isole greche, e da quanto ho visto, anche la più turistica – tanto che era impossibile muoversi tra i gruppi di turisti scesi dalle navi da crociera. Fortunatamente noi stavamo dall’altra parte dell’isola: niente tramonti infuocati, ma pace e serenità (e prezzi più bassi…). Ma era da fare, almeno una volta nella vita. Anche sono per la foto “tipica” della cupola blu che si staglia sul mare a Fira… 😁

Ho passato due mesi a Bologna per questioni di famiglia: erano anni che non stavo tanto per tempo ed è stato bello, anche se ero spesso molto, troppo, occupata a lottare contro la burocrazia italiana per godermi amici e famiglia come avrei voluto. Ma ho riscoperto la mia città, e la mia lingua: parlando quasi sempre in inglese non mi ero accorta di quante parole avevo dimenticato. Ho letto tanto in italiano, ho (finalmente!) visitato la Fondazione MAST, e sono andata all’Opera e a Teatro a Bologna – cose che non faccio mai quando sono lì, perché non ho mai abbastanza tempo. Sono anche andata a Firenze dopo dieci anni che non andavo, e l’ho trovata un circo dato in pasto ai turisti. Ho riordinato le vecchie foto, e facendolo ho rivalutato una parte del mio passato, quello che per anni ho cercato di buttarmi alle spalle. Ho visto le mie amiche di sempre, quelle dell’università. Siamo ancora noi, nonostante tutto, nonostante la vita, gli anni. E’ bello.

Ho riflettuto su quanto del mondo ho visto e quanto potrò ancora vedere. E’ inutile negarlo: ho decisamente passato il ‘mezzo del cammin della mia vita’, e per quanto uno sia ottimista, è ovvio che la parte più grande della mia vita è alle mie spalle. Forse non potrò più visitare tutti i luoghi che vorrei vedere – guerre, instabilità politica, e costi di treni e aerei si sono coalizzati contro di me. Forse è per questo che gran parte dei libri che ho letto quest’anno erano di viaggio – Evelyn Waugh, Robert Byron, Patrick Leigh Fermor, i grandi viaggiatori del del passato che si muovevano quando i turisti erano pochi e il mondo aveva ancora magia da offrire. Forse dovrò arrendermi al fatto che sto invecchiando e semplicemente non ho più l’energia per fare le cose che avrei voluto fare. Ma rimarrò fino alla fine un’inguaribile adultoscente (il termine non è mio, anche se vorrei tanto averlo inventato io…), e ne sono contenta. Che a volte l’essere adulti è una cosa terribilmente sopravvalutata… 😉

C’era una volta il biglietto di carta…

C’era una volta in un tempo lontano, quella piccola cosa che si chiamava biglietto di carta. Per andare a teatro, al cinema, ad un concerto o ad un museo, in aereo o a qualche evento sportivo, si riceveva un piccolo tagliando colorato che attestava l’avvenuta transazione e il nostro diritto si entrare nel reame (più o meno) fatato per cui ci si era dati pena di attendere in fila, e pagare.

Ricordo con affetto i distributori automatici di biglietti nell’atrio principale della Royal Festival Hall o del National Theatre. Prenotavo spettacoli e concerti da casa e quando passavo da quelle parti, inserivo la mia carta di credito e la macchinetta si metteva in moto, stampando allegramente i miei biglietti per gli eventi per i mesi a venire. Riponevo quei tesori in una busta e ogni tanto li andavo a guardare, pregustando gioie future: una soddisfazione pazzesca.

Poi è arrivato il Covid e, quella che già era una tendenza diffusa, ma opzionale (che si poteva scegliere tra il biglietto fisico e quello digitale) è divenuta standardizzata a Londra. Certo, consentendo di effettuare la transazione senza alcun contatto, l’e-ticket e il QR code necessario per il sistema Test and Trace del governo, hanno permesso a musei, teatri, negozi e ristoranti e di riaprire cautamente le porte al pubblico nel bel mezzo della pandemia. Che al giorno d’oggi, poiché anche lo smartphone più basilare può scaricare e visualizzare gli e-ticket, non è necessario stamparli, sono più economici, sostenibili e non si perdono nella posta o tra le pile di carta della scrivania…

Ma a livello emotivo, non sono la stessa cosa. Almeno non per me che da quando ero piccola conservo i biglietti delle cose che faccio, degli spettacoli a cui vado, delle mostre che vede. Biglietti che trovano posto su l’album di ritagli del momento, insieme a qualche nota personale, e che mi piace riguardare ogni volta che mi sento nostalgica. Stampare i biglietti digitali non ha senso – vanifica l’idea stessa della sostenibilità. E comunque non è la stessa cosa.

E se i vantaggi della tecnologia e digitalizzazione che ci separano da certi oggetti fisici ormai considerati obsoleti come i CD, i DVD, le musicassette e i biglietti di carta appunto – bisogna convenire che guardare con aria sognante un codice a barre, non da’ certo la stessa soddisfazione del rigirare tra le mani un colorato biglietto stropicciato. Che difficilmente un QR code sarà in grado di sollecitare nel nostro cervello quelle epifanie sensoriali che Proust chiamava memoria involontaria, in grado di restituirci un ricordo intatto, insieme alle sensazioni fisiche che si erano provate, gli odori, i colori, i suoni…

Buon compleanno Sergei Diaghilev

Cento cinquanta anni fa, nel 1872 in famiglia aristocratica di Novgorod, nasceva l’artefice della prima, vera rivoluzioni russa: Sergej (Serge) Pavlovič Djagilev. La rivoluzione creata dalla visione di Diaghilev nel mondo del teatro influenzerà le arti visive e la danza cambiando per sempre non solo coreografie e scenari, ma anche il gusto del pubblico. Diaghilev è passato alla storia per aver portato il balletto in generale – e il balletto russo in particolare – nel mondo degli sponsor privati (o quasi), nonchè per essere stato il più famoso omosessuale dal tempo di Oscar Wilde (che non a caso aveva incontrato e per cui nutriva grande stima).

Prima di diventare l’impresario per eccellenza e sconvolgere così le consuetudini del pubblico e della critica dell’inizio del Novecento, Sergei tuttavia intraprende altre strade – studia legge all’università, si dedica alla pittura, al canto e alla musica. Da critico d’arte e amante del balletto, diventa consigliere artistico dei Teatri Imperiali di San Pietroburgo prima di fondare con gli amici Leon Bakst e Alexandre Benois la rivista d’avanguardia Mir Iskusstva (Il mondo dell’arte). Ma la vicinanza allo zar non gli impedisce, quando scoppia la rivoluzione del 1905, di schierarsi con i rivoluzionari e appoggiare lo sciopero dei ballerini del Teatro Imperiale. 

Sempre nel 1905 organizza a San Pietroburgo un’esposizione di ritratti russi e, l’anno successivo, un’importante mostra di arte russa al Petit Palais di Parigi, considerata la più grande e completa in Europa. Vi partecipano molti artisti del tempo, da Aleksandr Nikolaevič Benois a Kostantin Somov ai più giovani Michail Fëdorovič Larionov e Natalia Gontcharova. L’ascesa di Sergei Diaghilev sembra inarrestabile. Nel 1907 presenta cinque concerti di musica russa a Parigi e nel 1908 mette in scena una produzione del Boris Godunov con Fëdor Šaljapin all’Opéra di Parigi. L’organizzazione di esposizioni d’arte e di concerti di musica russa a Parigi segna l’inizio di un lungo rapporto con la Francia.

Affascinato dal balletto, che occupa (e ha sempre occupato) nella cultura russa un ruolo molto più importante che in qualsiasi altra nazione europea, incluse Francia e Italia dove la danza classica era nata all’inizio del XIX secolo, Diaghilev si imbarcò nell’avventura che diventerà la sua ragione di vita. Era il 1909.

Lavoravo da qualche anno al museo quando il V&A allestì una strepitosa mostra dedicata al padre di tutti gli impresari, dal titolo Diaghilev and the Golden Age of the Ballets Russes, 1909 – 1929. Scenari teatrali, costumi di scena, poster, filmati d’epoca cronologicamente organizzati in tre sale, raccontavano la storia della compagnia e le sue alterne fortune – fortune che spesso ridussero sull’orlo della bancarotta sia Diaghilev che i suoi sponsor. E se materiali, costumi e poster erano storicamente interessanti, fu il potere evocativo dei piccoli oggetti quotidiani a catturare la mia immaginazione: un paio di logore scarpette da ballo, il manoscritto de L’uccello di Fuoco di Stravinsky pieno di ripensamenti e di cancellazioni, le poche cose possedute da Diaghilev – il suo mantello  da viaggio, l’inseparabile cappello a cilindro e i binocoli con cui ha osservato i trionfi (e gli occasionali disastri) della sua compagnia. Testimoniavano il duro lavoro dietro la leggenda dei Balletti Russi.

"Sergej Diaghilev (1872-1929) ritratto da Valentin Aleksandrovich Serov" by Valentin Alexandrovich Serov - PDF (for version uploaded on 2 January 2014). Licensed under Public Domain via Wikimedia Commons - https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Sergej_Diaghilev_(1872-1929)_ritratto_da_Valentin_Aleksandrovich_Serov.jpg#/media/File:Sergej_Diaghilev_(1872-1929)_ritratto_da_Valentin_Aleksandrovich_Serov.jpg
“Sergej Diaghilev (1872-1929) ritratto da Valentin Aleksandrovich Serov” by Valentin Alexandrovich Serov .

Che per esempio non sapevo che la compagnia di Diaghilev che per la cronaca comprendeva i migliori giovani ballerini russi, quasi tutti provenienti dal Teatro Mariinsky di San Pietroburgo, come Anna Pavlova e Vaslav Nijinskij (la stella della compagnia, con cui l’impresario ebbe un’appassionata relazione) avesse collaborato con moltissimi artisti delle Avanguardie artistiche del Novecento, come Derain, Matisse e Picasso. Di Picasso il V&A si era assicurato il monumentale sipario de Le Train Bleu, disegnato nel 1924 e da lui formalmente dedicato a Diaghilev. Sarà il sipario ufficiale dei Balletti Russi per gli anni a venire, i segni dell’usura e le pieghe della sua superficie un testamento alla durezza della peripatetica esistenza di Diaghilev e della sua troupe durante i venta’nni della loro esistenza.

O che avesse lanciato le carriere di musicisti come Stravinskij, Prokofiev, Rimsky-Korsakov e dei miei adorati francesi Satie, Debussy e Ravel. Stravinskij, in particolare, compose le musiche per balletti come L’Uccello di fuoco, Petrushka,  La sagra della primavera (titolo originale francese Le Sacre du printemps) quest’ultimo con la coreografia di Vaslav Nijinsky e la prima al Theatre des Champs-Elysées di Parigi fece scoppiare un vero e proprio pandemonio (come spesso accadde con i Balletti Russi, diciamocelo) tra quelli che ritenevano questo balletto un abominio e quelli che invece lo esaltavano vedendo in esso la nascita della musica moderna.

Diaghilev reinventa la sua compagnia come laboratorio e piattaforma di lancio per le avanguardie, collaborando con artisti come Picasso, Cocteau, Derain, Braque e Matisse e lanciando la carriera di musicisti come Stravinskij e Prokofiev. Inizialmente ispirata all’arte russa della fine del XIX secolo, la compagnia dei i Balletti Russi durante i vent’anni della sua esistenza pertipatetica cambia completamente la percezione europea in fatto di musica, colore e movimento. Da Scheherazade che unisce la musica di Rimsky-Korsakov, il virtuosismo di Nijinsky e i disegni di Léon Bakst, a Parade che vede all’opera i geni di Eric Satie, Cocteau e Picasso.

Vaslav Nijinsky in Le Spectre de la Rose, by Bert, 1913. Valentine Gross Archive, © Victoria & Albert Museum, London
Vaslav Nijinsky in Le Spectre de la Rose, by Bert, 1913. Valentine Gross Archive, © Victoria & Albert Museum, London

Ma durante i devastanti anni della Prima Guerra Mondiale (1914-18) la compagnia si trova tagliata fuori dai grandi circuiti dell’Europa occidentale di Londra, Parigi, Berlino e Montecarlo. E improvvisamente tutto cambia. Se nel 1914 Diaghilev e Stravinsky erano rispettabili cittadini dell’Impero Russo, quattro anni dopo si trovano improvvisamente esiliati e senza patria, in fuga da una Russia Bolscevica devastata dalla Guerra Civile. Con un ultimo colpo di coda, Diaghilev orchestra l’entrata in scena dei modernisti russi Natalia Goncharova, Mikhail Larionov e Naum Gabo, e la collaborazione con i Futuristi italiani di Marinetti. Ma ultimi anni dei Balletti russi ebbero raramente il successo incondizionato delle prime stagioni. Era finita un’epoca, e nel 1929 la compagnia di danza si scioglie.

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Illustrations by Léon Bakst

Diaghilev si spegne, povero ed esausto nell’agosto del 1929, al ‘Hotel des Bains al Lido di Venezia. Così povero infatti, che il suo funerale fu pagato dalla sua amica Coco Chanel. Per uno che un volta disse che “non si può vivere, si può solo essere” Diaghilev ha vissuto la sua vita con sorprendente intensità. Il repertorio dei Ballets Russes ancora oggi cattura l’immaginazione, portato nel mondo da alcuni dei suoi più celebri ballerini e devoti studenti – George Balanchine negli Stati Uniti, Ninette de Valois in Gran Bretagna, Serge Lifar a Parigi presso l’Opéra.

Londra// fino al 9 Gennaio 2011 Diaghilev and the Golden Age of the Ballets Russes, 1909 – 1929 @ Victoria and Albert Museum vam.ac.uk

2022 ©Paola Cacciari

Unesco: patrimonio immaterale, candidato canto lirico italiano

L’arte del canto lirico italiano è candidata per l’inserimento nella lista rappresentativa Unesco del Patrimonio Culturale Immateriale. Oggi la presentazione ufficiale a Parigi. L’arte del canto lirico italiano è candidata […] L’articolo Unesco: patrimonio immaterale, candidato canto lirico italiano proviene da Uozzart.

Unesco: patrimonio immaterale, candidato canto lirico italiano

Un amore difficile

Già da bambina ero affascinata dalla Russia. Non so bene cosa abbia scatenato quell’interesse iniziale, so solo che mentre tutti sognavano l’America, io volevo andare in Russia. Sarà stato il desiderio bonario di andare in Unione Sovietica del Compagno Peppone, che faceva arrabbiare Don Camillo con le sue uscite su quella “terra promessa”, sarà stato quella strana scritta C.C.C.P. presente ovunque, dalle tute dei cosmonauti alle magliette dei calciatori sovietici ai mondiali di calcio del 1982.

Sono sempre stata una bambina curiosa. E l’essere cresciuta durante la Guerra Fredda non ha altro che stuzzicare la mia curiosità. Barricata com’era dietro la cortina di ferro, la Russia – anzi l’Unione Sovietica, era per me un luogo proibito e quindi esotico. Studiavo con passione la geografia e sapevo posizionare sulla cartina con esattezza non solo Mosca, San Pietroburgo, ma anche Novosibirsk, il lago Baikal, e gli arcipelaghi di Novaya e Severnaya Zemlya. Nella mia mente, quei nomi suonavano come la quintessenza dell’esotismo, e li pronunciavo con l’entusiasmo ignaro che solo chi non conosce affatto una lingua (e quindi non sa gli strafalcioni che dice) può permettersi.

Ero affascinata dalla storia semi-leggendaria di quel paese infinito, così grande da occupare undici fusi orari (uno dei paesi con il maggior numero di fusi orari del mondo), dalle figure semi-divine di Zar e Zarine, dalle foto della Piazza Rossa, dalle cupole a cipolla di San Basilio, dallo status quasi mitologico occupato nell’immaginario collettivo dal Teatro Bolshoi e dal balletto in genere. Mia madre adorava Nureyev (anche se non era del Bolshoi) e sospirava ogni volta che ne pronunciava il nome.

Ero affascinata dalla vastità di quel paese, che sembrava infinito e il cui confine andava dal Baltico al Pacifico; dall’Oceano Artico al Mar Caspio, dal quel suo non essere Asia, ma neanche del tutto Europa. Sapevo quanto fosse grande l’America, ma sapevo quanto fosse più grande la Russia.

Anche quando sono stata sconfitta dalla mole (Guerra e Pace), dalla disperazione (Delitto e Castigo) e dal criptico surrealismo (Il Maestro e Margherita) della sua letteratura, non mi sono arresa. Ho studiato la storia e ho cercato di capirne la cultura. Ho persino cercato di imparare la lingua. Quando vi sono ritornata anni dopo, più matura e con più esperienze alle spalle, me ne sono innamorata più che mai. E poi la musica. E il balletto.

Per questo è così doloroso per me assistere alla carneficina che Putin sta infliggendo all’Ucraina. Alcuni tra i miei artisti scrittori e musicisti vengono da quel paese. Nikolai Gogol, Mikail Bulgakov e Aleksandr Solzhenitsyn. E Ilya Repin e Mikhail Larionov. E Sergei Prokofiev, l’autore della più incredibile suite musicale, The Dance of the Knights per per il più incredibile dei balletti, Romeo and Juliet di Kenneth McMillan. Persino la più famosa donna cecchino sovietica, Lyudmila Pavlichenko era ucraina.

E’ come assistere ad una guerra fratricida. Mi sembra puro autolesionismo.

Ukraine flag above the V&A, London 2022 © Paola Cacciari

A woman places flowers at  Saint Volodymyr in Holland Park, London 2022 © Paola Cacciari

Schiaccianoci! di Matthew Bourne

Ovvero, di come il celebre e controverso balletto di Tchaikovsky riceve il trattamento “matthewbourniano”.

Ma i puristi non si agitino (io lo ero, agitata) che ciò che le due versioni hanno in comune è solo la musica rendendo perciò impossibile inutili paragoni. Quello di Matthew Bourne e della sua compagnia di danza New Adventures infatti non potrebbe essere più lontano dallo scintillante balletto tradizionale, a cominciare dalla storia di Hoffmann ambientata in un grigio e triste orfanotrofio di stampo dickensiano, i cui orfani la vigilia di Natale aspettano con ansia la visita di alcuni benefattori – sotto lo sguardo arcigno dei direttori del loro collegio, il Signor e la Signora Dross e dei loro viziati rampolli Sugar e Fritz, pronti a togliere alla prima occasione i regali donati agli orfani . La piccola Clara riceve in regalo uno strano giocattolo, non proprio uno schiaccianoci, ma un curioso pupazzo da ventriloquo, di cui si innamora perdutamente quando questi all’improvviso si trasforma in un giovane prestante e la porta nel mondo della neve e dello zucchero.

Il secondo atto si trasforma in una una coloratissima fantasmagoria visiva, in cui si susseguono in un divertissement dopo l’altro torte gigantesche, caramelle danzanti, liquirizie spagnole, le ragazze Marshmallow, i bon bon Gobstoppers, impegnati nelle loro particolari versioni delle danze tradizionali. Uno dei momenti più magici secondo me è la Danza dei Fiocchi di Neve, immaginata su una pista da ghiaccio, che evoca vecchi film scandinavi (o una scena di Little Women).

Fostituita nel secondo atto da un mitico reame fatato dove tutto è candito e commestibile.

Fantasia e l’immaginazione si coniugano con una tecnica di danza inappuntabile, tanto elegante, quanto espressiva. Tutti i ballerini hanno, infatti, capacità mimico-narrative notevoli, oltre che un’indiscussa preparazione fisica e tecnica Quello che qui si cerca è lo stupore infantile, la gioia e il divertimento di un regno dei dolciumi rosa shocking. E certamente qui c’è di tutto in abbondanza.

Is this the end of live arts?

This is not about the politics, or vaccination policies, this post is just my personal thoughts… Recently the Metropolitan Opera announced they will require proof of vaccine boosters to enter the world’s largest opera house… (click here for full article) Major shows, institutions, and opera have also withdrawn holding live performances this month… The world […]

Is this the end of live arts?

Lo Schiaccianoci

Ah, Lo Schiaccianoci! Uno dei classici di Natale, di quei balletti universali in grado di coinvolgere tutti, grandi e piccini, spettatori appassionati e occasionali. E insieme a Il Lago dei Cigni e La Bella Addormentata è certamente uno dei più famosi della tradizione russa, con alcune tra le melodie più famose e riconoscibili del Romanticismo. Non occorre essere un esperto di musica classica per conoscere la musica delValzer dei fiori, della Danza russa o quella inconfondibile della Danza della Fata Confetto, se non altro per averle sentite almeno una volta in qualche film o in televisione?

Abitando a Londra, la versione che conosco meglio e quella del Royal Ballet, e avendo mancato il loro splendido Nutcracker per qualche anno di seguito, quest’anno mi sono precipitata a vederlo, prima che un nuovo lockdown o come è accaduto a Berlino, il politically correct – lo togliessero nuovamente dal palcoscenico. Che sì, a Berlino il balletto di Ciaikovskij è stato giudicato razzista e per questo tolto dal repertorio in attesa di essere riveduto e corretto.

La storia è semplice: Clara Stahlbaum e la sua famiglia stanno organizzando una grande festa di Natale, i regali sono ammassati sotto il grande albero e i presenti mangiano, bevono e si divertono. Il giocattolaio Drosselmeyer, il misterioso padrino di Clara, dona alla bambina una bellissima bambola di legno, lo Schiaccianoci. Ma Fritz, il fratello di Clara, è geloso del dono. I due litigano rompendo lo Schiaccianoci si rompe, che viene prontamente riparato da Drosselmeyer.

Francesca Hayward as Clara and Gary Avis as Drosselmeyer in the Royal Ballet Nutcracker

Più tardi quella notte, Clara scende di soppiatto per controllare il suo amato nuovo giocattolo. L’orologio suona la mezzanotte e all’improvviso tutti i giocattoli prendono vita e Clara si ritrova all’improvviso nel bel mezzo di una battaglia tra i soldatini comandati dallo Schiaccianoci e i topolini del Re dei Topi.

Clara aiuta coraggiosamente lo Schiaccianoci, e grazie a lei il Re dei Topi è sconfitto e l’incantesimo è rotto e la bambola si trasforma in un giovane, Hans Peter, il nipote di Drosselmeyer che è stato maledetto dalla madre del re dei topi molti anni fa. Ma le avventure di Clara non sono finite e insieme ad Hans-Peter e Drosselmeyer viaggia su una slitta, guidata dall’angelo dell’albero di Natale, verso terre lontane. Attraversano il Paese delle Nevi arrivando infine nel Regno dei Dolci dove incontrano la Fata Confetto e del Principe Coqueluch, che li accolgono nel loro regno e li presentano ai loro amici. Tutti ballano per festeggiare, e in onore della giovane eroina, viene prodotta una celebrazione di dolci provenienti da tutto il mondo: La Cioccolata – Danza spagnola, Il Caffè – Danza araba, Il Tè – Danza cinese, I bastoncini di zucchero: Trepak – Danza russa, I pastorelli di marzapane: Pastorale – Danza degli zufoli (o dei “flauti di canna”).

Vadim Muntagirov and Marianela Nuñez in the Royal Ballet’s The Nutcracker

Ma i tempi sono cambiati e da esotici intermezzi, questi divertissements – cioè una suite di brani puramente strumentali in sequenza libera, dal carattere per lo più scorrevole e leggero, sono al giorno d’oggi accusati di essere intollerabili caricature etniche e sono stati cambiati o addirittura tagliati per evitare di offendere la suscettibilità della Woke generation. Come se i bambini di adesso attaccati come sono a Internet e ai socials non sapessero già anche troppo del mondo per credere agli stereotipi.

Dance of the Sugar Plum Fairy from The Nutcracker (The Royal Ballet)

Ispirato dal libro La storia di uno schiaccianoci di Alexandre Dumas che a sua volta aveva adattato e addolcito la fiaba originale Lo schiaccianoci e il re dei topi scritta da E.T.A Hoffmann nel 1816, con musiche di Pyotr Ilyich Tchaikovsky e coreografia di Marius Petipa e Lev Ivanov, Lo Schiaccianoci fu rappresentata per la prima volta al Teatro Mariinsky di San Pietroburgo nel 1892. La produzione e l’interpretazione della storia del Royal Ballet sono state create da Sir Peter Wright e hanno debuttato alla Royal Opera House nel 1984.

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Marius Petipa

Balletto Classico

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Marius Petipa, ballerino e coreografo francese, può essere considerato il vero fondatore del balletto classico per come lo conosciamo oggi, il grande continuatore della tradizione romantica ed uno dei più grandi coreografi di ogni tempo.

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Marie Taglioni, la prima ballerina (quasi) sulle punte.

Nella sala dedicata alla storia del Teatro e della Performance del museo in cui lavoro (anche se sarebbe meglio dire lavoro ancora, nonostante i tagli e gli esuberi volontari o meno…) in una teca di vetro stretta tra una foto di Rudolf Nureyev scattata da David Bailey, al costume di scena ‘Bicycle John’ di Elton John, e a quattro statuette dei Beatles, c’è la minuscola scarpetta con cui la grande Maria Taglioni  (1804-1884) ballò davanti all’imperatrice Alexandra Feodorovna, moglie dello Zar Nicola I di Russia, in una funzione privata a San Pietroburgo nel 1842. Secondo l’iscrizione sulla suola, la Taglioni aveva eseguito due danze spagnole, un Herta e un Cachucha.

Questa scarpetta da cenerentola non manca mai di sturpirmi, e non solo per le sue minuscole dimensioni dei piedi delle donne dell’epoca, ma per il fatto stesso che sia sopravvissuta fino a noi. Le scarpette da ballo hanno notoriamente vita breve: basti pensare che Marianela Núñez, la prima ballerina del Royal Ballet di Londra, il cui repertorio è particolarmente impegnativo dal punto di vista fisico e tecnico, logora le scarpe dopo un solo giorno – la scatola di cartapesta della punta troppo malconcia per un ulteriore utilizzo. Il che rende questa scarpetta della metà del XIX secolo particolarmente rara. Essendo poi associata a Marie Taglioni e allo sviluppo della danza sulle punte, fa di questo artefatto è un oggetto importantissimo nella storia della costruzione delle scarpette da ballo.

Lithograph by Chalon and Lane of Marie Taglioni as Flora in Didelot’s Zéphire et Flore. London, 1831 (Victoria and Albert Museum/Sergeyev Collection)

Perchè Maria Taglioni fu la prima a eseguire un intero balletto, La Sylphide, danzando sulle punte. Non essendo ancora stata inventata la “mascherina” con la punta piatta, quella scatola rigida in tela o carta imbevute di resine speciali che permette alla ballerina moderna di restare in equilibrio sulle punte, Marie Taglioni doveva accontentarsi di ballare utilizzando queste pantofoline in seta dalle suole modificate, i cui lati e la punta erano imbottiti e rafforzati da cuciture per mantenere la forma. Questo tipo di scarpetta non forniva un vero sostegno, per cui le danzatrici erano costrette a fasciare le dita, utilizzando solo la forza dei piedi e delle caviglie.

Ma l’eredita che Marie Taglioni ha lasciato alla danza classica non si limita al danzare sulle punte. Per lei infatti il pittore Eugene Lamy crea il tutù, quel costume leggero e vaporoso, con il sottogonna bianco, che sarebbe poi diventato l’emblema della ballerina romantica. Fu lei ad introdurre anche l’acconciatura à bandeaux che divenne poi tipica della danzatrice classica.Non per nulla Marie Taglioni è considerata la prima grande ballerina romantica di tutti i tempi.

Ma chi era Marie Taglioni? Il padre, il coreografo e ballerino italiano Filippo Taglioni, si occupa personalmente della formazione artistica della figlia, sottoponendola a sessioni massacranti, ma che diedero strepitosi risultati. Filippo sa che la danza è nel DNA della giovane figlia, e la spinge a creare per se un ruolo che andasse oltre a quelli claustrofobici di moglie e madre imposte alle donne dalla società del XIX secolo. Inoltre lui è direttore dei balli alla corte di Svezia e il successo della figlia è anche la sua carta vincente per fare carriera. Dopo il debutto sulle scene a Vienna nel 1822, arrivò a Parigi nel 1827. Il trionfo parigino all’Opéra di Parigi arrivò nel 1832, con La Sylphide, coreografia creata per lei da suo padre nella quale, sulla base della tecnica ballettistica italiana che associava il rapido gioco delle gambe a movimenti lenti del busto e delle braccia.

Nello stesso anno, Marie si sposò con il conte Gelbeit de Voisins, ma il matrimonio durò soltanto tre anni. Osannata in tutta Europa (fu tra il 1837 e il 1839 l’étoile del Teatro di San Pietroburgo), ottenne consensi anche alla Scala di Milano, dove debuttò il 20 maggio 1841 con grande successo, e continuò a danzare fino ad un’età, per l’epoca, molto avanzata: quando si ritirò, nel 1848, aveva 44 anni.

Il padre, che era stato l’artefice della sua fortuna artistica, fu anche il responsabile della sua rovina economica, mandandola in bancarotta con le sue speculazioni sbagliate. La Taglioni dovette così riprendere a guadagnarsi la vita dando lezioni di danza e portamento, a Parigi e a Londra, dove visse al numero 14 dell’elegante Connaugh Square, nel quartiere di Paddington, dove una Blue Plaque eretta nel 1960 dal London County Council celebra il suo passaggio.

Marie Taglioni Blue Plaque, 14 Connaught Square. London, 2021 © Paola Cacciari

Morì in miseria, ottantenne, a Marsiglia, e là fu sepolta, finché il figlio Georges Gilbert Des Voisins non la fece trasferire nella tomba di famiglia al Père-Lachaise. Le è stato dedicato un cratere di 31 km di diametro sul pianeta Venere. Non male per una Silfide

2021 © Paola Cacciari