Il soldato ucraino che issò la Bandiera della Vittoria — iStorica

La Bandiera della Vittoria sul Reichstag è una delle foto più famose della storia eppure il regime sovietico nascose per anni i nomi dei suoi protagonisti e del fotografo che la scattò. Il sergente Aleksej Kovalëv era, infatti ucraino, come il fotografo ebreo Evgenij Chaldej, e il suo commilitone Abdulchakim Ismailov dagestano, etnie sgradite alContinua…

Il soldato ucraino che issò la Bandiera della Vittoria — iStorica

La Banda Mario, i “patrioti stranieri” contro il nazifascismo — iStorica

Il regime fascista li aveva presi in Africa e portati in Italia per esporli come trofei alla Triennale di Napoli. Ma molti di loro si liberarono, entrando in quella Resistenza che avrebbe abbattuto per sempre l’Impero fascista. Erano  eritrei, etiopi, libici, somali, il governo li aveva presi nelle colonie con le loro famiglie e costrettiContinua…

La Banda Mario, i “patrioti stranieri” contro il nazifascismo — iStorica

Perché è così importante conquistare Kharkiv — iStorica

Oggi Kharkiv, grande città industriale nell’est dell’Ucraina, è il bersaglio dei bombardamenti russi. L’esercito di Mosca ha trovato una forte resistenza da parte della popolazione che, nella città, è composta anche da russi (oltre che da ucraini, armeni, azeri). La posizione di Kharkiv, la sua importanza industriale e il suo ruolo culturale l’hanno resa unoContinua…

Perché è così importante conquistare Kharkiv — iStorica

Giorno della Memoria: da Anna Frank a Edith Bruck, cinque libri per non dimenticare

Ogni anno, il 27 gennaio, si celebra il Giorno della Memoria per ricordare le vittime della Shoah. In tal senso, la lettura di un libro può essere davvero utile. Ecco cinque titoli da recuperare/scoprire…

Giorno della Memoria: da Anna Frank a Edith Bruck, cinque libri per non dimenticare

I giovani Pirati di Edelweiss tedeschi che combattevano i nazisti — iStorica

Un gruppo di adolescenti tedeschi armati di chitarra e voglia di ballare decise di rifiutare il regime nazista e iniziare a combatterlo. Erano i “Pirati di Edelweiss” e diventarono una spina nel fianco delle SS fino alla fine della guerra. La storia dei Pirati di Edelweiss Quando l’adesione alla Gioventù Hitleriana fu resa obbligatoria nelContinua…

I giovani Pirati di Edelweiss tedeschi che combattevano i nazisti — iStorica

El Alamein – La linea del fuoco

Non mi capita spesso di vedere film italiani che non raccontino delle gesta dei partigiani, dell’orrore dell’occupazione tedesca, della distruzione nella vita dei civili. Che, diciamocelo, di film italiani recenti raccontino dei soldati italiani in guerra alleati dei tedeschi non ce non sono molti che quell’alleanza con Hitler la si vorrebbe dimenticare. Mediterraneo è forse l’unico mi viene in mente. Ed era proprio alla pellicola di Gabriele Salvatores che mi veniva da pensare quando, per puro caso, mi sono imbattuta in questo El Alamein – La linea del fuoco in quel pozzo senza fondo che è Internet. Forse perché il regista è quello stesso Enzo Monteleone che di Mediterraneo è stato lo sceneggiatore, e che come in Mediterraneo evita come la peste la retorica bellicistica quando racconta di questi soldati persi nel deserto nel 1942

Il film è ambientato durante la Seconda battaglia di El Alamein, vista dalla prospettiva italiana. Nell’autunno del 1942 le forze italo-tedesche, guidate dal generale Rommel, furono sconfitte dall’VIII armata britannica del generale Montgomery. Nel suo L’armata nel deserto: Il segreto di El Alamein storico Arrigo Petacco ricostruisce l’intera campagna dell’Africa settentrionale, individuando la chiave della sconfitta di Rommel: la sistematica intercettazione dei messaggi tedeschi da parte degli Alleati che grazie al decodificatore “Ultra” ( abbreviazione di “UltraSecret”) approntato da un team di grandi matematici tra cui Alan Turing, di decifrare “l’Enigma, il criptatore fino ad all’ora ritenuto inviolabile dai tedeschi. Questi ultimi, incapaci di spiegarsi i continui successi britannici in Africa, se la presero immediatamente con quei chiacchieroni degli alleati italiani, sui quali gettarono la responsabilità delle sconfitte tedesche. Quello che non si conobbe fino alla metà degli anni Settanta, quando fu finalmente rivelata al mondo, fu l’esistenza di tale sistema, ma ormai ai nostri soldati la nomina di inetti e traditori non gliela toglieva più nessuno.

Poco si parla degli errori strategici, dell’inettitudine del Generale Rodolfo Graziani accusato, fra le altre cose, di codardia, per aver diretto le operazioni da una tomba tolemaica di Cirene, profonda trenta metri e lontana dal fronte alcune centinaia di chilometri e incapace di sostenere gli attacchi inglesi benché in forze nettamente inferiori alle truppe italiane, dell’arrivo di Rommel, delle vittorie e della sconfitta finale.

Travolti in una battaglia di oltre dieci giorni che agli italiani costò 9.500 morti e 30.000 prigionieri, questi giovani (impersonati da attori tanto bravi da sembrare veri, come lo stranito volontario Paolo Briguglia, il sergente Pierfrancesco Favino, il tenente Emilio Solfrizzi) fanno il loro dovere fra alternanze insopportabili di calori diurni e freddi notturni. Cannonate che sollevano nuvole di sabbia e insidiose fucilate di cecchini, reticolati e campi minati, fame molta e acqua poca.

Il film non parla di politica, né di alta strategia e sui signori della guerra si concede appena qualche stilettata ironica. Come le derrate di lucido da scarpe arrivate per la parata della vittoria ad Alessandria (che non si farà mai) invece di cibo e acqua, o il furgone con il cavallo di Mussolini la cui vista suscita nei soldati affamati tentazioni gastronomiche. Monteleone ci trasporta all’interno di questa tragedia con la stessa umana semplicità di Mediterraneo .

Tra questi veterani arriva dall’Italia pieno di entusiasmo il giovane fante Serra, volontario universitario originario di Palermo inviato sul fronte del Nordafrica dove è assegnato al 27º Reggimento fanteria “Pavia” dipendente dalla 17ª Divisione fanteria “Pavia”, a sua volta inquadrata nel X Corpo d’Armata italiano. Come molti connazionali, anche il giovane Serra trasuda spirito patriottico, e come tutti coloro che da casa pensano che la vittoria sia già cosa fatta e non hanno idea della realtà, è certo che la conquista di Alessandria sia imminente, confidando di partecipare alla sfilata trionfale che si svolgerà nella città egiziana. Ma la realtà del fronte è molto diversa: il caldo è insopportabile, l’armamento è inadeguato, il cibo insufficiente, l’acqua è razionata e inquinata; l’artiglieria dellVIII Armata britannica martella costantemente le posizioni italiane, lasciando un po’ di respiro solo di notte. E tutti i soldati soffrono di dissenteria.

La lettera alla madre che il soldato serra compone nella sulla mente mentre vaga stravolto tra rottami e cadaveri dopo un sanguinoso scontro con il corpo Neozelandese, è uno dei momenti più veri e tragici del film:

“Oggi ho visto in faccia l’orrore. A scuola ti insegnano “fortunati quelli che muoiono da eroi.” Ne ho visti in bel po’ di questi eroi. I morti non sono né fortunati né sfortunati: sono morti e basta. Marciscono in fondo as una buca, senza in briciolo di poesia. La morte è bella solo sui libri di scuola. Nella vita fa pietà. E’ orrenda. E puzza.”

Fante Serra

La gloriosa divisione Folgore, che schierata insieme a ciò che rimaneva della Divisione “Pavia”, durante la seconda a battaglia di El Alamein riuscì a resistere per una decina di giorni ai ripetuti tentativi di sfondamento degli alleati. In ottemperanza agli ordini dell’ACIT la divisione “Folgore” iniziò la ritirata nella notte del 3 novembre 1942, in condizioni rese difficilissime dalla mancanza di mezzi di trasporto. Dopo due giorni di marcia nel deserto, alle 14:35 del giorno 6, dopo aver distrutto le armi, ciò che restava della Divisione si arrese alla 44ª divisione fanteria britannica del generale Hughes. I paracadutisti italiani ottennero dai britannici l’onore delle armi e, dopo la resa, il generale Hughes volle ricevere i generali Enrico Frattini e Riccardo Bignami e il colonnello Boffa, complimentandosi per il comportamento dei loro uomini. Dopo la battaglia di El Alamein alla Divisione “Folgore” ed ai suoi Reggimenti verrà conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare. Interamente distrutta in combattimento, la divisione “Folgore” venne sciolta a fine 1942.

Qualche «cammeo» di attori noti ravviva il cast: Silvio Orlando, generale suicida, Roberto Citran, colonnello imbecille, Giuseppe Cederna, medico stoico.

Tempo di regali (A Time of Gifts) di Patrick Leigh Fermor

I regali del lockdown. Fino a qualche mese fa non avevo idee di chi fosse Patrick Leigh Fermor, (1915-2011) fino a quando, curiosando in libreria mi è capitato tra le mani un suo libretto, Three Letters from the Andes – lettere scritte alla moglie durante uno straordinario viaggio fatto nel 1971 con cinque amici nell’alto Perù – da Lima a Cuzco, alla valle dell’Urubamba, a Puno e Juliana sul lago Titicaca, giù ad Arequipa e infine di nuovo a Lima. L’ho comprato immediatamente, in preda ad un profonda nostalgia per la mancanza di viaggi causa Covid, e per rivivere in solitudine uno dei viaggi più belli (quello in Perù appunto) che mi è capitato di fare nella mia vita. E non me ne sono pentita, che la capacità di saper descrivere eventi, cose, persone e paesaggi e farli prendere vita davanti ai nostri occhi è uno dei grandi doni di Patrick Leigh Fermor: non a caso è stato definito dal Guardian come uno dei più grandi scrittore di viaggio del Regno Unito, se non il più grande.

A Time of Gifts, il primo di una trilogia che racconta il viaggio intrapreso dall’autore dall’Olanda a Costantinopoli, ci porta fino in Ungheria. Il secondo volume, Fra i boschi e l’acqua (1986), inizia con l’attraversamento da parte di Fermor del ponte Maria Valeria posto tra Cecoslovacchia e Ungheria, terminando col suo arrivo alle Porte di Ferro dove il Danubio segna il confine tra l’allora Regno di Yugoslaviae la Romania. Il terzo volume racchiude l’ultima parte del viaggio fino a Costantinopoli, pubblicato incompleto e postumo nel 2013 col contributo di Artemis Cooper.

Nato a Londra nel 1915, Patrick Leigh Fermor era figlio di un distinto geologo di stanza in India. Decisa a raggiungere il marito in India, la madre Muriel Aeyleen parte con la figlia maggiore poco dopo la nascita del bambino, lasciando il neonato Patrick in Inghilterra con una famiglia nel Northamptonshire che lo alleverà per i prossimi quattro anni. Inutile dire che questi primi anni cosí liberi e “selvatici” resero il giovane Leigh Fermor profondamente insofferente alla struttura e alle limitazioni accademiche delle scuole dell’alta borghesia a cui la sua famiglia apparteneva, e in cui i suoi cercano di farlo rientrare una volta rientrati in possesso (si fa per dire…) del figlioletto ribelle. Visto come caso disperato, finí in una scuola per bambini “difficili”, la King’s School di Canterbury che adora e in cui si dedica con passione allo studio dei classici e di Shakespeare, Fino a quando non viene espulso anche da lì dopo essere stato sorpreso a tenersi per mano con la figlia di un fruttivendolo. Il suo ultimo rapporto della King’s School notava che il giovane Leigh Fermor era “un pericoloso miscuglio di raffinatezza e avventatezza”. Una passeggera intenzione di entrare al Royal Military College di Sandhurst, lasciò preso il posto a vaghe ambizioni letterarie, per soddisfare le quali nell’estate del 1933 si trasferì a Shepherd Market a Londra, vivendo con alcuni amici. Ben presto, di fronte alle sfide poste alla vita di un autore a Londra e al rapido prosciugamento delle sue finanze, decise di partire per l’Europa. Ha appena diciotto anni.

Munito solo di uno zaino da alpinista, un vecchio cappotto militare, scarponi chiodati, l’Oxford Book of English Verse e un passaporto nuovo di zecca che gli attribuisce la professione di studente e di vaghe ambizioni letterarie, il nostro eroe parte alla volta di Costantinopoli. Quando vi arriva, il 1° gennaio 1935, è ormai un altra persona.

È un libro magico questo, da leggere piano, senza fretta assaporando le parole, in cui si scorgono gli eventi cha avrebbero trasformato l’Europa da lì a poco – primo fra tutti Hitler e il Nazismo; ma fatto di scorci poetici di cupole e monasteri, di grandi fiumi, di paesaggi innevati, di borgomastri ospitali, e soprattutto delle grandezze e della defunta cortesia di un mondo spazzato via per sempre dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Leigh Fermor di porta co sè in questo viaggio nel tempo e nello spazio, grazie alla sua incredibile capacità di trasmetter agli altri ciò che vede e di trasformare un dettaglio in un fantasmagorico affresco, che ricrea lo splendore di un’Europa passata. Non sorprende che abbia influenzato tanto altri grandi viaggiatori come Bruce Chatwin e Colin Thubron.

Tempo di regali A piedi fino a Costantinopoli: da Hoek Van Holland al Medio Danubio
Traduzione di Giovanni Luciani
Biblioteca Adelphi, 2009,

2021 by Paola Cacciari

Il pianista di Varsavia: la straordinaria storia di Władysław Szpilman (e del nazista che lo salvò)

Credo di essere stata una delle poche persone al mondo a non aver mai visto Il Pianista di Roman Polanski, lo straordinario racconto di sopravvivenza di Władysław Szpilman nella Varsavia occupata dai nazisti. Almeno fino all’anno scorso quando il lockdown mi ha dato la possibilità di mettermi in pari con i film che avevo perso negli ultimi vent’anni. E il film mi èpiaciuto cosi tanto che ho sentito l’urgenza di leggere il libro, e ho fatto bene.

Dire che è un bel libro non rende l’idea, che come si può valutare un libro come questo? Il mio cuore e la mia mente erano in completo subbuglio quando l’ho chiuso. La voce di Szpilman non è mai amara, e anche nei momenti più difficili e disperati mai una volta si lascia prendere dall’odio nei confronti dei tedeschi, lui che ne avrebbe avute tutte le ragioni. Anzi, il suo racconto è quasi distaccato, ma suppongo sia parte della ragione per cui scrisse questo libro in primo luogo: elaborare il trauma. La sua intenzione non era quella di sputare dichiarazioni politiche sulla Seconda Guerra Mondiale. Il libro è semplicemente la straordinaria storia di questo straordinario individuo che, grazie ad una fortunata serie di circostanze che mettono sulla sua strada persone che lo aiutano e ad un’incrollabile determinazione, riesce a sopravvivere mentre l’intera Europa crolla nel nel caos.

Ma quella narrata ne Il Pianista, non è solo la storia di Wladyslaw Szpilman. Una sorpresa attende l’ignaro lettore alla fine, sotto forma di brani del diario di Wilhelm Hosenfeld (1895-1952), l’ufficiale della Wehrmacht che, negli ultimi mesi del 1944, non solo tacque agli altri ufficiali delle SS la presenza di Szpilman nell’unico edificio a più piani rimasto in piedi a Varsavia, ma lo salvò da morte certa procurandogli cibo, acqua e coperte (gli lasciò persino il suo pesante cappotto) per sopravvivere alla fame e al freddo dell’inverno polacco.

Wilhelm Hosenfeld

Alcuni dei passaggi più toccanti, inquietanti e riflessivi della narrazione vengono proprio dal suo diario, che è stato recuperato anni dopo e incorporato nel libro di memorie di Szpilman. “Il male e la brutalità si annidano nel cuore umano. Se gli viene permesso di svilupparsi liberamente, prosperano, emettendo terribili ramificazioni …”

Cresciuto in una famiglia devotamente cattolica che gli inclulc ò l’importanza della carità e con una moglie pacifista, Hosenfield era tuttavia un patriota e come tale abituato all’obbedineza prussiana. Si unisce al partito nazista nel 1935, solo per ritrovarsi in guerra disilluso e inorridito dalle sue politiche. Durante il suo periodo a Varsavia, Hosenfeld usò la sua posizione per dare rifugio a persone, indipendentemente dall’etnia o dalla fede politica, all’occorenza fornendo loro persino i documenti necessari e un posto di lavoro nello stadio sportivo che era sotto la sua supervisione. Hosenfeld si arrese ai sovietici a Błonie, una piccola città polacca a circa 30 km a ovest di Varsavia, con gli uomini di una compagnia della Wehrmacht che guidava e fu condannato a 25 anni di lavori forzati per crimini di guerra semplicemente sulla base della sua unità militare d’appartenenza.

Il 25 novembre 2008, Yad Vashem, il memoriale ufficiale di Israele per le vittime dell’Olocausto, ha riconosciuto postumo Hosenfeld come Giusto tra le nazioni.

Sa di miracolo che nel mezzo di tanto orrore proprio ufficiale tedesco sembri essere stato l’unico ad aver avuto la forza morale di ammettere cio’ che altri non sarebbero riusciti ad ammettere che molto, molto tempo dopo.

“Tutta la nostra nazione dovrà pagare per tutti questi torti e questa infelicità, tutti i crimini che abbiamo commesso. Molte persone innocenti devono essere sacrificate prima che la colpa di sangue che abbiamo subito possa essere spazzata via. Questa è una legge inesorabile in piccolo e cose grandi allo stesso modo.”

E se bisogna celebrare il coraggio di Wladyslaw Szpilman, che aiutò la resistenza ebraica nel ghetto di Varsavia, nonostante la costante minaccia alla sua stessa vita, lo stesso vale per Wilm Hosenfeld per essersi aggrappato alla sua coscienza in un momento in cui la moralità e la compassione scarseggiavano. Una storia questa come tante altre che non si conosceranno mai, e che mi fa ancora credere al trionfo dello spirito umano.

2021 © Paola Cacciari

Cecil Beaton: Theatre of War

Dall’archivio del passato, anno 2013: un’insolito Cecil Beaton fotografo di guerra, una vera scoperta…

Vita da Museo

C’erano molte cose che non sapevo di Cecil Beaton prima di visitare questa bellissima mostra all‘Imperial War Museum. Non sapevo che avesse disegnato i costumi di  scena per  opere famose come la Turandot di Puccini per la Royal Opera House di Londra nel 1961-62 per esempio. O per musical famosi come Gigi e My fair Lady, due produzioni che gli valsero l’Oscar. O che avesse disegnato il mitico vestito bianco e nero indossato da Audrey Hepburn. E non sapevo neanche che  la sua vera passione fosse  il teatro, ma non avendo  abbastanza talento per fare l’attore e che non potendo mantenersi come costumista e scenografo, per sbarcare il lunario, avesse cominciato a fotografare attrici famose e ricche signore per Vogue.
Audrey Hepburn in 'My Fair Lady', costume by Cecil Beaton
Ma soprattutto non sapevo che tra il 1939 e il 1945 fosse stato uno dei  fotografi ufficiali del Ministero dell’Informazione…

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La scelta del Re

Che bella storia. Quella di re Haakon VII di Norvegia (1872- 1957), dico. Ciò che conosco della Norvegia si limita ai libri di Jo Nesbo e all’arte di Edvard Munch, ma grazie al bellissimo film in circolazione su Prime Video, La scelta del re ho imparato qualcosa di nuovo.

Per esempio che Haakon in realtà si chiamava Carl Georg Valdemar Axel Bertram, ed era Principe di Danimarca prima di essere scelto “a tavolino” da una commissione governativa e invitato a diventare il primo Re di Norvegia. In seguito alla separazione dalla Svezia nel 1905 il governo del nuovo norvegese fu incaricato di individuare, tra i rampolli delle monarchie europee, i candidati più adatti al ruolo di monarca per i secoli a venire. La scelta cadde su Carl, e non solo non solo in quanto discendente dagli antichi sovrani norvegesi, ma anche per il fatto (molto più pragmatico) che la principessa Maud del Galles portasse in dote anche un legame di parentela con la famiglia reale britannica (era a figlia di re Edoardo VII, e la nipote della regina Vittoria) prezioso per la nuova Norvegia indipendente, sia a livello di prestigio e di alleanze politiche, che di politiche commerciali.

Ma il principe danese era un democratico, e accettò di diventare re a patto che la sua scelta da parte del governo norvegese fosse approvata da un referendum popolare – referendum che, non fece altro che confermare la scelta del governo. E il 18 novembre 1905 Carl fu eletto re dallo Storting (parlamento) con l’antico nome norreno di Haakon.
Sebbene la Costituzione della Norvegia conferisca al re un poteri esecutivi, in pratica quasi tutte le principali decisioni governative sono prese dal Consiglio di Stato in suo nome. Haakon preferì sempre non interferire nella politica, rispettando le decisioni del governo, ma fu proprio la simpatia che il popolo provava per lui e la sua autorità morale che che permisero alla Norvegia di sopravvivere agli anni più drammatici della su storia.

Re Haakon ed il principe ereditario Olav cercano rifugio tra i boschi della Norvegia durante un attacco tedesco su Molde nell’aprile 1940

A differenza della Danimarca che si era arresa il giorno successivo all’invasione tedesca, la Norvegia oppose resistenza prima di essere a sua volta invasa nel 1940. Ma nonostante il suggerimento-minaccia dell’ambasciatore tedesco di seguire l’esempio di suo fratello Cristiano X di Danimarca e di arrendersi per evitare ritorsioni, re Haakon si rifiutò di nominare un governo fantoccio capeggiato dal simpatizzante nazista Vidkun Quisling, spiendo la sua decisione con il fatto che ne’ popolo che il parlamento avrebbero trovato una nomina antidemocratica – aggiungendo che, qual’ora il consiglio avesse deciso diversamente, lui sarebbe stato pronto ad abdicare per allinearsi alla scelta del governo.

Sono profondamente dispiaciuto dalla responsabilità che grava su di me in caso di rifiuto alla richiesta tedesca. La responsabilità per le calamità che colpirebbero il mio popolo sono troppo grandi. Mi rimetto alle decisioni del governo, ma la mia posizione è chiara. Per parte mia non posso accettare la richiesta dei tedeschi. Essa sarebbe in conflitto con tutto ciò che considero mio dovere come re di Norvegia, incarico che mi è stato affidato trentacinque anni fa da questo governo.

L’autorità morale dimostrata da re Haakon lo trasforma in una figura centrale della resistenza norvegese durante i cinque anni dell’occupazione nazista. Il suo monogramma, indossato o dipinto sugli edifici, divenne per i norvegesi simbolo di solidarietà per il re in esilio e di sostegno al governo della nazione. Al numero 10 di Palace Green, sull’edificio che ora ospita l’ambasciata norvegese, una blue plaque commemora la sua permanenza nella capitale durante i cinque anni di esilio durante la Seconda Guerra Mondiale.

2021©Paola Cacciari