Chiswick House

Nel Settecento, i ricchi aristocratici inglesi che volevano considerarsi tali dovevano completare la propria educazione con un Grand Tour europeo che li portava inevitabilmente in Italia.

Lungi dall’essere così splendida, l’Italia – quella vera – era una realtà completamente differente. Ma questo ai primi viaggiatori che venivano per il Grand Tour non interessava: il loro era un pellegrinaggio che facevano per riverire ciò che l’Italia era stata e che in un certo senso era ancora: un museo all’aria aperta, punteggiato da opere d’arte e dove il lascito del Rinascimento era ancora palpitante. Il fatto poi che fosse possibile fare tutto ciò sotto un sole radioso invece che sotto il cielo plumbeo del nord Europa, contribuiva a rendere l’esperienza imperdibile. E cosi i giovani aristocratici inglesi si recavano a Venezia, a Firenze, a Napoli e naturalmente a Roma, dove visitavano le antiche rovine e sospiravano.

Chiswick House and Gardens, London, 2017 © Paola Cacciari

Lo fece anche Richard Boyle (1694-1753) III Conte di Burlington che, stimolato da ciò che aveva visto al ritorno dai suoi viaggi italiani (tra il 1714 e il 1719), decide di passare all’azione. Più interessato all’arte e all’architettura e alla musica che alla politica, Lord Burlington era anche mecenate e, soprattutto, un abile architetto tanto da essere definito da Horace Walpole the Apollo of the arts’. Non sorprende pertanto che la sua ammirazione per l’architettura della Roma antica e per il genio di Andrea Palladio sfoci in quello che è il capolavoro del palladianesimo inglese che  è Chiswick House (1725–9).

Ispirata a Villa Capra (La Rotonda) e concepita da Lord Burlington più come una vetrina per la sua magnifica collezione di dipinti e come luogo di intrattenimento che come abitazione, Chiswick House è uno spettacolare omaggio all’architettura di Palladio, un sogno di perfezione trasportato sul suolo inglese.

Chiswick House, The Gallery. Photo English Heritage

Dopo la morte di Lady Burlington nel 1758, la villa e il giardino passarono alla famiglia Cavendish. William Cavendish senior morì nel 1764, lasciando la proprietà al figlio William junior, il quinto duca di Devonshire, che nel 1774 sposò Lady Georgiana Spencer (la famosa Duchessa di Devonshire interpretata da Keira Knightley nel film omonimo del 2008), la quale amava trascorrere il tempo a Chiswick, che considerava il suo “paradiso terrestre.

Chiswick House and Gardens, London, 2017 © Paola Cacciari

E come darle torto? La villa  è circondata da un bellissimo parco, in cui Lord Burlington e l’architetto di giardini William Kent giocano a sperimentare con nuovi elementi. I due infatti volevano ricreare un giardino dell’antica Roma come quelli di dell’imperatore Adriano Villa Adriana a Tivoli e incorporano elementi come fortificazioni, statue, boschi, elementi architettonici classici ed egizi, cascatelle e giochi d’acqua. Il parco è uno dei primi esempi del design del paesaggio inglese.

Chiswick House and Gardens, London, 2017 © Paola Cacciari

Ora Chiswick House  è gestita dall’English Heritage e vale davvero una visita. Da contemplare con tranquillità.

Metropolitana: Turnham Green (District Line)

Africa fashion

Il Victoria and Albert Museum ha una lunga storia in quanto a organizzare mostre di moda, e certamente da quando ci lavoro ne ho viste tante (molto spesso dall’interno, lavorandoci dentro…). Negli anni ho visto celebrare geni come Christian Dior, Balenciaga e Alexander McQueen, gli Swinging Sixties di Mary Quant, gli anni Ottanta di Club to Catwalk, e il rapporto tra moda e Natura in Fashioned from Nature e l’affascinante storia dell’abbigliamento maschile di Fashioning Masculinities, senza dimenticare accessori come borse, e scarpe e biancheria intima. Ma dalla sua fondazione nel 1852 il V&A (e per la verità nessun’altra istituzione britannica…), ha mai dedicato un’intera mostra alla moda africana.

L’artista ghanese El Anatsui ha affermato che “il tessuto è per gli africani ciò che i monumenti sono per gli occidentali”.

Il linguaggio della moda non è una novità anche nell’Occidente (vedi qui). Ma in molte culture africane il tessuto è un vero e proprio documento storico, ricco di significato simbolico

Gli anni dell’indipendenza e della liberazione africana dalla metà della fine degli anni ’50 al 1994 hanno innescato un radicale riordino politico e sociale in tutto il continente africano, anche grazie alla all’operato di OSPAAAL (Organizzazione di Solidarietà con i Popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina) l’organizzazione di solidarietà formata da movimenti antimperialisti e rivoluzionari nel Sud del mondo sull’onda della Conferenza Tricontinentale del 1966 e con sede a Cuba, e alla pubblicazione della rivista Tricontinental. Che centra Cuba con l’Africa? C’entra eccome, che Fidel Castro riteneva suo dovere intervenire militarmente in quei paesi che percepiva essere governati da un tiranno o da un despota. E nel corso della Guerra Fredda.la piccola Cuba è intervenuta in numerosi conflitti, dall’Algeria al Congo, all’Angola, in supporto di movimenti di liberazione locali, pagando un caro prezzo a livello internazionale per le sue politiche interventiste.

Tra moda, musica, arti visive, manifesti di protesta, pubblicazioni e dischi, vediamo oggetti che incarnano questa era di cambiamento radicale. Le prime pubblicazioni dei membri del Mbari Club, creato per scrittori, artisti e musicisti africani, si trovano accanto alla copertina di Beasts of No Nation di Fela Kuti, un album di chiamata alle armi che incarnava il sentimento comune di frustrazione nei confronti della politica del tempo, ma anche l’energia della creatività africana e la spinta dei suoi artisti a creare cose belle.

La politica e la poetica del tessuto considera l’importanza del tessuto in molti paesi africani e come la fabbricazione e l’uso di tessuti indigeni nel momento dell’indipendenza sia diventato un atto politico strategico. Sono presenti stampe a cera, tele commemorative, àdìrẹ, kente e bògòlanfini, esempi di tecniche provenienti da tutto il continente. In mostra c’è un tessuto commemorativo realizzato nei primi anni Novanta dopo il rilascio di Nelson Mandela, con un ritratto del futuro primo presidente nero del Sud Africa e le parole “UNA VITA MIGLIORE PER TUTTI – LAVORARE INSIEME PER LAVORO, PACE E LIBERTÀ”.

Tra i documenti storici più importanti è il ritratto dell’allora primo ministro ghanese Kwame Nkrumah che indossa un panno kente per annunciare l’indipendenza del suo Paese dal dominio britannico nel 1957. Tipico del Ghana, il kente è un tessuto a strisce di seta e cotone – ogni tessuto che porta il nome e/o un messaggio del tessitore, ragione per cui i ghanesi scelgono i tessuti kente con molta attenzione. Storicamente il tessuto veniva indossato come una toga dai reali di gruppi etnici come gli Ashanti e gli Ewe. Nel Ghana moderno, l’uso del tessuto kente si è diffuso per commemorare occasioni speciali,

Una sezione dedicata alla fotografia della metà della fine del XX secolo, cattura l’umore delle nazioni sull’orlo dell’autogoverno. L’euforia della decolonizzazione coincide con la democratizzazione della fotografia, resa possibile grazie a pellicole più economiche e fotocamere più leggere. Gli scatti documentano la modernità, il cosmopolitismo e la coscienza della moda degli individui, mentre i ritratti realizzati negli studi e negli spazi domestici sono diventati affermazioni di azione e rappresentazione di sé, visibilmente orgogliosi di essere neri e africani. I punti salienti di questa sezione includono la fotografia in studio di Sanlé Sory, Michel Papami Kameni e Rachidi Bissiriou. Gli eleganti ritratti a colori di James Barnor si affiancano anche alle fotografie domestiche di 10 famiglie raccolte dall’appello pubblico del V&A nel gennaio 2021.

Il piano superiore è dedicato ai designer e ai fotografi contemporanei, impegnati a sfidare la mancanza di sfumature nelle rappresentazioni dei musulmani neri non binari. Ma il vero fine dei creatori della mostra è abbattere strategicamente i vecchi confini coloniali

2022 Paola Cacciari

London//fino al 16 Aprile 2023

Africa Fashion @ Victoria and Albert Museum

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La storia dei geroglifici

Da bambina volevo fare l’archeologa, che ho sempre avuto una passione per la storia e i misteri delle scomparse civiltà e città del passato. Tanto che la mia povera mamma non si scompose quando, alle medie, la spedii in libreria a comprarmi l’edizione integrale di Civiltà sepolte. Il romanzo dell’archeologia  di C.W. Ceram di cui la prof. di storia aveva parlato. Anche se indubbiamente [la mia mamma] si preoccupava per quella sua strana figlia adolescente che preferiva isolarsi a leggere degli scavi archeologici di Ercolano e Pompei, della riscoperta di Troia da parte di Heinrich Schliemann, passando per gli Assiri, i Babilonesi, i Sumeri, i Maya, gli Aztechi. Naturalmente un capitolo del libro era dedicato a Champollion e alla decifrazione dei geroglifici.

Mi sono sempre chiesta quale sia stata la reazione del giovane studioso francese, Jean-Francois Champollion quando, dopo anni di tentativi riesce finalmente a decifrare il linguaggio dei geroglifici. I avrei fatto salti di gioia, immagino abbia fatto lo stesso. Il monumento che ha consentito questa svolta è stata ovviamente la Stele di Rosetta, oggi ritornata al nome originale di Rashid, dall’antica e ricca città sul delta del Nilo dove fu scoperta nel 1799. Che prima del ritrovamento della stele e della sua decifrazione, la comprensione di questa antica scrittura lingua egizia si era persa quasi nel tempo, il suo significato deliberatamente reso sempre più complesso e criptico durante il periodo tardo dell’epoca faraonica. A questo si aggiunsero anni di conquiste e saccheggi – a partire da Ottaviano che, sulla strada per diventare Cesare Augusto, nel 30 a.C. affronta e sconfigge Antonio e Cleopatra, seguita poi dall’invasione araba e dell’Impero Ottomano, tutti fatti che accelerarono la perdita del significato originale dei geroglifici. Il loro uso decorativo nelle iscrizioni ufficiali cessò dopo la chiusura di tutti i templi non cristiani, avvenuta nell’anno 391 per volere dell’imperatore romano Teodosio I.

Champollion tuttavia non fu il primo a studiare il semi-pittorico misterioso “linguaggio degli uccelli” , come erano chiamati i geroglifici nell’antichità. Già ci avevano provato i viaggiatori arabi medievali e gli studiosi del Rinascimento che, infischiandosene dei dati storici, lo trasformano in una scrittura «silenziosa» le cui figure simboliche sono in grado di svelare la vera essenza e il significato trascendente delle cose. Come l’occhio alato, forse derivato dall’iconografia egizia dell’occhio di Horus, che Leon Battista Alberti, adotta come suo simbolo personale. Il francese è solo più veloce degli altri a pubblicare i risultati dei suoi studi dell’eccentrico studioso inglese Thomas Young (1773–1829), che propendeva per considerare quei simboli misteriosi pittogrammi occulti, invece che un alfabeto di suoni (anche se in realtà erano entrambi).

Ci voleva Napoleone con la sua Campagna d’Egitto per ridare la spinta finale all’impresa. Furono infatti i soldati di Napoleone, capeggiati dal capitano Pierre-François Bouchard a portare alla luce per caso la stele di Rosetta, trovata ‘riciclata’ nelle mura di un forte che stavano occupando nel 1799. Fortunatamente Napoleone aveva portato con sè una brigata di studiosi, con istruzioni ben precise di individuare tesori da portare in Francia, e la Stele fu immediatamente riconosciuta. Ma quando il Duca di Wellington sconfisse Napoleone a Waterloo, la Stele approdò invece a Londra dove, dal 1802 è conservata al British Museum, del quale (come dice Wikipedia) è il reperto più popolare della collezione, insieme con le mummie.

L’anticlimax deve essere stato intenso quando, invece di gesta di eroi o storie degli dei, Champollion trova incisi su questo grosso pezzo di granito una serie di noiosi paragrafi burocratici Tuttavia il fatto che codesti articoli fossero in tre lingue – geroglifici, demotico e greco, deve aver diluito non poco la delusione. E il resto è storia…

2022 ©Paola Cacciari

Chris Killip: il fotografo della deindustrializzazione inglese

Nella memoria popolare, gli anni Settanta sono passati alla storia come una sorta di ritorno al Medioevo, uno tra i periodi più cupi della Gran Bretagna dalla seconda guerra mondiale, schiacciato tra l’ottimismo degli anni Sessanta di Harold Wilson e i controversi anni Ottanta di Margaret Thatcher. Certamente quelli sono anni che né il mio compagno (inglese), né la sua famiglia ricordano con piacere. Ma se a Londra l’austerity non scherzava, nel Nord dell’Inghilterra la situazione era a dir poco disperata.

La crisi comincia già negli anni Sessanta, quando le giapponesi Yamaha, Suzuki, Honda. e Kawasaki cominciano a innondare il mercato con i loro prodotti, seguite a ruota da industrie tedesche e americane che primeggiavano nel mercato del dopoguerra accelerando la deindustrializzazione del Nord dell’Inghilterra. Le industrie britanniche – troppe, troppo piccole e prive di un sistema manageriale efficiente, semplicemente non riescono a competere con i giganti stranieri. Per intere comunità della classe operaia, basate nei pressi di particolare fabbrica, acciaieria o miniera dove la maggior parte degli uomini che svolgeva lo stesso lavoro del padre o del nonno, il collasso di queste industria significa l’inizio di un inarrestabile declino economico che si sente ancora oggi. Il declino dell’estrazione e della produzione di carbone nell’Inghilterra settentrionale ha portato a confronti con la Rust Belt negli Stati Uniti.

Entri Chris Killip (1946-2020). Nato nel 1946 all’Isola di Man, Killip lascia la scuola a sedici anni e nel 1964 decide di dedicarsi alla fotografia a tempo pieno, sbarcando il lunario come assistente nello studio londinese del fotografo di pubblicità Adrian Flowers. Ma il viaggio a New York del 1969 cambia tutto. Al Museum of Modern Art, ispirato dalle immagini di giganti come Walker Evans, August Sander e Paul Strand, Killip decide di cambiare rotta. Agli inizi degli anni Settanta, abbandona la sua carriera nella pubblicità e torna nella sua nativa Isola di Man per documentare la lenta erosione dello stile di vita tradizionale dell’isola. Successivamente, grazie a commissioni e borse di studio dell’Arts Council, Killip si sposta nel nord-est dell’Inghilterra, nel Northumberland e nel North dello Yorkshire dove, tra gli anni Settanta e Ottanta documenta il declino delle comunità della classe operaia che vivevano all’ombra delle industrie e che nel giro di pochi anni sarebbero state disperse.

Looking east on Camp Road, Wallsend, 1975. Photograph: Chris Killip

Chris Killip, Gordon in the Water, Seacoal Beach, Lynemouth, 1983. Courtesy: © Chris Killip Photography Trust and The Martin Parr Foundation

Chris Killip, Youth on Wall, Jarrow, Tyneside, 1975. Courtesy: © Chris Killip Photography Trust and  The Martin Parr Foundation

Guardando queste foto mi vivere in mente un’altra mostra fotografica alla Photographer’s Gallery e dedicata alla straordinaria This Murtha. Le sue immagini dei giovani della periferia di Newcastle Upon Tyne, che si affacciavano alla vita adulta senza opportunità, vittime di una società che non era in grado di offrire una soluzione o un’alternativa declino industriale e la stagnazione economica. Il Giovane appoggiato al muro di Killip e i giovani disoccupati di Tish Murtha sono cresciuti e hanno votato per la Brexit.

London// fino al 19 Febbraio 2023 @ The Photographers’ Gallery, London

War Games – (Video)Giochi di Guerra

La mostra più bella che abbia visto quest’anno, è una che non volevo vedere. Parlo di War Games: Real Conflicts | Virtual Worlds | Extreme Entertainment  all’Imperial War Museum. Non giocando a video games, semplicemente non mi interessava.

E’ stata la nostalgia. Che gli ex-adolescenti della mia generazione, ricorderanno Wargames – Giochi di guerra, il film del 1983, in cui un imberbe Matthew Broderick impersona il giovane David Lightman, studente di Seattle appassionato di informatica nonché promettente hacker. Alla ricerca di nuove sfide, il nostro eroe si introduce in quello che crede essere il computer di una nota casa di videogiochi che sta per lanciare prodotti nuovi e inizia a giocare. Fino a quando inizia, senza saperlo, una partita con lo WOPR (The War Operation Plan Response) dell’esercito americano, rischiando inavvertitamente di portare il mondo sull’orlo di un disastro nucleare. Il computer dell’epoca fa quasi tenerezza, un’ingombrante scatola di plastica e lucine, connessa al telefono. Il mio, che pure ho acquisito molti anni più tardi, non era molto diverso.

Essendo totalmente priva di interesse in ogni tipo di video gioco (i miei ricordi si fermano a Pac-Man), fatico a capire l’entusiasmo che li circonda (anche qui, i miei ricordi si fermano alla battaglia navale su carta e al Risiko). Certo, i giochi d’azione (e di guerra) sono in circolazione da molto tempo e hanno sempre avuto una relazione più stretta del previsto con gli sviluppi della guerra nella vita reale. Basti pensare al gioco degli scacchi, il gioco di strategia per eccellenza, da secoli prediletto di re e aristocratici, come mezzo per apprendere i primi rudimenti sul come muoversi, in teoria, su quella rappresentazione astratta del campo di battaglia che era la scacchiera.

Ma nei video giochi degli ultimi trent’anni la pistola e tutti i suoi derivati, fanno la parte del leone. Pare che la guerra e la violenza in genere, costituiscano un buon soggetto per un gioco. Mi sono spesso chiesta se il perché di tanto successo fosse rispondesse al bisogno atavico di sfogare odi e frustrazioni personali in un luogo “sicuro”, un po’ come i grandiosi e sanguinosi spettacoli pubblici con cui gli imperatori romani si assicuravano che la plebe sfogasse la propria rabbia al circo, piuttosto che in rivolte sociali. O forse perchè avere tra le mani una pistola finta, sia quella di un tiro a segno, o quelle di una console, ci fa sentire onnipotenti?

Nel tentativo di indagare il motivo per cui i giochi di guerra siano così popolari tra gli utenti, i curatori dell’Imperial War Museum hanno coinvolto psicologi , storici, accademici e disegnatori. E il risultato è illuminante. I video games offrono uno spazio sicuro in cui chiunque può sperimentare l’inimmaginabile: non a caso simulatori di campo di battaglia come Virtual Battlespace Four, sono usati da anni dalle forze armate di tutto il mondo, mentre i soldati che affetti da disturbo da stress post-traumatico possono tranne benefici come mezzo per elaborare il trauma. I video games, insomma, fornisco uno spazio in cui sperimentare situazioni che siamo curiosi di provare, ma che non vorremmo mai vivere nella realtà. Con i loro suoni, colori e una grafica sempre più realistica e complessa, ci risucchiano emotivamente, permettendoci di diventare il motore della storia e di trasformarci in eroi senza paura o in cecchini infallibili dalla sicurezza del nostro divano, senza farci un graffio..

A still from battle simulator Arma 3 / Arma/ Imperial War Museum

Ma si corre il rischio che questo ricreare virtualmente la guerra possa essere pericoloso, sfumi i contorni della nostra realtà, diventanti un’estensione o finisca addirittura per sostituirsi ad essa. Al punto che per alcuni può diventare difficile distinguere tra le due cose. Quando giochiamo sappiamo che la violenza è finta, possiamo ricominciare a giocare anche se nella partita precedente eravamo stati uccisi. Ma nella realtà questo è impossibile, e i giochi violenti sono spesso stati additati come i responsabili dell’aumento di sparatorie di massa, soprattutto nelle scuole americane, sebbene un rapporto dell’agosto 2015 dell’American Psychological Association non abbia trovato prove sufficienti di un legame tra i video giochi violenti e l’aumento della violenza. Ma lo stesso rapporto ha tuttavia stabilito che tali giochi portano ad un aumento dell’ aggressività.

Allora mi chiedo se, oltre alle fin troppo note (e condivise) frustrazioni della vita reale (l’austerity, la guerra in Ucraina, il rincaro dei prezzi, gli eventi della politica interna), mi chiedo se è anche per questo, o in parte ANCHE per questo, per l’aver passato troppo tempo in solitudine attaccati al computer a fingere di giocare alla guerra che la gente è emersa dal lock-down così violenta ed intrattabile?

2022 ©Paola Cacciari

London//fino al 28 Maggio 2023

Imperial War Museum

Il soldato ucraino che issò la Bandiera della Vittoria — iStorica

La Bandiera della Vittoria sul Reichstag è una delle foto più famose della storia eppure il regime sovietico nascose per anni i nomi dei suoi protagonisti e del fotografo che la scattò. Il sergente Aleksej Kovalëv era, infatti ucraino, come il fotografo ebreo Evgenij Chaldej, e il suo commilitone Abdulchakim Ismailov dagestano, etnie sgradite alContinua…

Il soldato ucraino che issò la Bandiera della Vittoria — iStorica

Queer as Bologna: The most colourful city in Italy? — CompassUnibo Blog

The city of Bologna is often considered open-minded, tolerant, and queer-friendly. This means it provides a safe environment for members of the LGBTQ+ community, that is gay, bi, trans, or, in general, queer people. What does it mean to be gay-friendly in a country where the Catholic church is prominently represented? Walking hand in hand […]

Queer as Bologna: The most colourful city in Italy? — CompassUnibo Blog

Buon compleanno Sergei Diaghilev

Cento cinquanta anni fa, nel 1872 in famiglia aristocratica di Novgorod, nasceva l’artefice della prima, vera rivoluzioni russa: Sergej (Serge) Pavlovič Djagilev. La rivoluzione creata dalla visione di Diaghilev nel mondo del teatro influenzerà le arti visive e la danza cambiando per sempre non solo coreografie e scenari, ma anche il gusto del pubblico. Diaghilev è passato alla storia per aver portato il balletto in generale – e il balletto russo in particolare – nel mondo degli sponsor privati (o quasi), nonchè per essere stato il più famoso omosessuale dal tempo di Oscar Wilde (che non a caso aveva incontrato e per cui nutriva grande stima).

Prima di diventare l’impresario per eccellenza e sconvolgere così le consuetudini del pubblico e della critica dell’inizio del Novecento, Sergei tuttavia intraprende altre strade – studia legge all’università, si dedica alla pittura, al canto e alla musica. Da critico d’arte e amante del balletto, diventa consigliere artistico dei Teatri Imperiali di San Pietroburgo prima di fondare con gli amici Leon Bakst e Alexandre Benois la rivista d’avanguardia Mir Iskusstva (Il mondo dell’arte). Ma la vicinanza allo zar non gli impedisce, quando scoppia la rivoluzione del 1905, di schierarsi con i rivoluzionari e appoggiare lo sciopero dei ballerini del Teatro Imperiale. 

Sempre nel 1905 organizza a San Pietroburgo un’esposizione di ritratti russi e, l’anno successivo, un’importante mostra di arte russa al Petit Palais di Parigi, considerata la più grande e completa in Europa. Vi partecipano molti artisti del tempo, da Aleksandr Nikolaevič Benois a Kostantin Somov ai più giovani Michail Fëdorovič Larionov e Natalia Gontcharova. L’ascesa di Sergei Diaghilev sembra inarrestabile. Nel 1907 presenta cinque concerti di musica russa a Parigi e nel 1908 mette in scena una produzione del Boris Godunov con Fëdor Šaljapin all’Opéra di Parigi. L’organizzazione di esposizioni d’arte e di concerti di musica russa a Parigi segna l’inizio di un lungo rapporto con la Francia.

Affascinato dal balletto, che occupa (e ha sempre occupato) nella cultura russa un ruolo molto più importante che in qualsiasi altra nazione europea, incluse Francia e Italia dove la danza classica era nata all’inizio del XIX secolo, Diaghilev si imbarcò nell’avventura che diventerà la sua ragione di vita. Era il 1909.

Lavoravo da qualche anno al museo quando il V&A allestì una strepitosa mostra dedicata al padre di tutti gli impresari, dal titolo Diaghilev and the Golden Age of the Ballets Russes, 1909 – 1929. Scenari teatrali, costumi di scena, poster, filmati d’epoca cronologicamente organizzati in tre sale, raccontavano la storia della compagnia e le sue alterne fortune – fortune che spesso ridussero sull’orlo della bancarotta sia Diaghilev che i suoi sponsor. E se materiali, costumi e poster erano storicamente interessanti, fu il potere evocativo dei piccoli oggetti quotidiani a catturare la mia immaginazione: un paio di logore scarpette da ballo, il manoscritto de L’uccello di Fuoco di Stravinsky pieno di ripensamenti e di cancellazioni, le poche cose possedute da Diaghilev – il suo mantello  da viaggio, l’inseparabile cappello a cilindro e i binocoli con cui ha osservato i trionfi (e gli occasionali disastri) della sua compagnia. Testimoniavano il duro lavoro dietro la leggenda dei Balletti Russi.

"Sergej Diaghilev (1872-1929) ritratto da Valentin Aleksandrovich Serov" by Valentin Alexandrovich Serov - PDF (for version uploaded on 2 January 2014). Licensed under Public Domain via Wikimedia Commons - https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Sergej_Diaghilev_(1872-1929)_ritratto_da_Valentin_Aleksandrovich_Serov.jpg#/media/File:Sergej_Diaghilev_(1872-1929)_ritratto_da_Valentin_Aleksandrovich_Serov.jpg
“Sergej Diaghilev (1872-1929) ritratto da Valentin Aleksandrovich Serov” by Valentin Alexandrovich Serov .

Che per esempio non sapevo che la compagnia di Diaghilev che per la cronaca comprendeva i migliori giovani ballerini russi, quasi tutti provenienti dal Teatro Mariinsky di San Pietroburgo, come Anna Pavlova e Vaslav Nijinskij (la stella della compagnia, con cui l’impresario ebbe un’appassionata relazione) avesse collaborato con moltissimi artisti delle Avanguardie artistiche del Novecento, come Derain, Matisse e Picasso. Di Picasso il V&A si era assicurato il monumentale sipario de Le Train Bleu, disegnato nel 1924 e da lui formalmente dedicato a Diaghilev. Sarà il sipario ufficiale dei Balletti Russi per gli anni a venire, i segni dell’usura e le pieghe della sua superficie un testamento alla durezza della peripatetica esistenza di Diaghilev e della sua troupe durante i venta’nni della loro esistenza.

O che avesse lanciato le carriere di musicisti come Stravinskij, Prokofiev, Rimsky-Korsakov e dei miei adorati francesi Satie, Debussy e Ravel. Stravinskij, in particolare, compose le musiche per balletti come L’Uccello di fuoco, Petrushka,  La sagra della primavera (titolo originale francese Le Sacre du printemps) quest’ultimo con la coreografia di Vaslav Nijinsky e la prima al Theatre des Champs-Elysées di Parigi fece scoppiare un vero e proprio pandemonio (come spesso accadde con i Balletti Russi, diciamocelo) tra quelli che ritenevano questo balletto un abominio e quelli che invece lo esaltavano vedendo in esso la nascita della musica moderna.

Diaghilev reinventa la sua compagnia come laboratorio e piattaforma di lancio per le avanguardie, collaborando con artisti come Picasso, Cocteau, Derain, Braque e Matisse e lanciando la carriera di musicisti come Stravinskij e Prokofiev. Inizialmente ispirata all’arte russa della fine del XIX secolo, la compagnia dei i Balletti Russi durante i vent’anni della sua esistenza pertipatetica cambia completamente la percezione europea in fatto di musica, colore e movimento. Da Scheherazade che unisce la musica di Rimsky-Korsakov, il virtuosismo di Nijinsky e i disegni di Léon Bakst, a Parade che vede all’opera i geni di Eric Satie, Cocteau e Picasso.

Vaslav Nijinsky in Le Spectre de la Rose, by Bert, 1913. Valentine Gross Archive, © Victoria & Albert Museum, London
Vaslav Nijinsky in Le Spectre de la Rose, by Bert, 1913. Valentine Gross Archive, © Victoria & Albert Museum, London

Ma durante i devastanti anni della Prima Guerra Mondiale (1914-18) la compagnia si trova tagliata fuori dai grandi circuiti dell’Europa occidentale di Londra, Parigi, Berlino e Montecarlo. E improvvisamente tutto cambia. Se nel 1914 Diaghilev e Stravinsky erano rispettabili cittadini dell’Impero Russo, quattro anni dopo si trovano improvvisamente esiliati e senza patria, in fuga da una Russia Bolscevica devastata dalla Guerra Civile. Con un ultimo colpo di coda, Diaghilev orchestra l’entrata in scena dei modernisti russi Natalia Goncharova, Mikhail Larionov e Naum Gabo, e la collaborazione con i Futuristi italiani di Marinetti. Ma ultimi anni dei Balletti russi ebbero raramente il successo incondizionato delle prime stagioni. Era finita un’epoca, e nel 1929 la compagnia di danza si scioglie.

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Illustrations by Léon Bakst

Diaghilev si spegne, povero ed esausto nell’agosto del 1929, al ‘Hotel des Bains al Lido di Venezia. Così povero infatti, che il suo funerale fu pagato dalla sua amica Coco Chanel. Per uno che un volta disse che “non si può vivere, si può solo essere” Diaghilev ha vissuto la sua vita con sorprendente intensità. Il repertorio dei Ballets Russes ancora oggi cattura l’immaginazione, portato nel mondo da alcuni dei suoi più celebri ballerini e devoti studenti – George Balanchine negli Stati Uniti, Ninette de Valois in Gran Bretagna, Serge Lifar a Parigi presso l’Opéra.

Londra// fino al 9 Gennaio 2011 Diaghilev and the Golden Age of the Ballets Russes, 1909 – 1929 @ Victoria and Albert Museum vam.ac.uk

2022 ©Paola Cacciari

Un amore difficile

Già da bambina ero affascinata dalla Russia. Non so bene cosa abbia scatenato quell’interesse iniziale, so solo che mentre tutti sognavano l’America, io volevo andare in Russia. Sarà stato il desiderio bonario di andare in Unione Sovietica del Compagno Peppone, che faceva arrabbiare Don Camillo con le sue uscite su quella “terra promessa”, sarà stato quella strana scritta C.C.C.P. presente ovunque, dalle tute dei cosmonauti alle magliette dei calciatori sovietici ai mondiali di calcio del 1982.

Sono sempre stata una bambina curiosa. E l’essere cresciuta durante la Guerra Fredda non ha altro che stuzzicare la mia curiosità. Barricata com’era dietro la cortina di ferro, la Russia – anzi l’Unione Sovietica, era per me un luogo proibito e quindi esotico. Studiavo con passione la geografia e sapevo posizionare sulla cartina con esattezza non solo Mosca, San Pietroburgo, ma anche Novosibirsk, il lago Baikal, e gli arcipelaghi di Novaya e Severnaya Zemlya. Nella mia mente, quei nomi suonavano come la quintessenza dell’esotismo, e li pronunciavo con l’entusiasmo ignaro che solo chi non conosce affatto una lingua (e quindi non sa gli strafalcioni che dice) può permettersi.

Ero affascinata dalla storia semi-leggendaria di quel paese infinito, così grande da occupare undici fusi orari (uno dei paesi con il maggior numero di fusi orari del mondo), dalle figure semi-divine di Zar e Zarine, dalle foto della Piazza Rossa, dalle cupole a cipolla di San Basilio, dallo status quasi mitologico occupato nell’immaginario collettivo dal Teatro Bolshoi e dal balletto in genere. Mia madre adorava Nureyev (anche se non era del Bolshoi) e sospirava ogni volta che ne pronunciava il nome.

Ero affascinata dalla vastità di quel paese, che sembrava infinito e il cui confine andava dal Baltico al Pacifico; dall’Oceano Artico al Mar Caspio, dal quel suo non essere Asia, ma neanche del tutto Europa. Sapevo quanto fosse grande l’America, ma sapevo quanto fosse più grande la Russia.

Anche quando sono stata sconfitta dalla mole (Guerra e Pace), dalla disperazione (Delitto e Castigo) e dal criptico surrealismo (Il Maestro e Margherita) della sua letteratura, non mi sono arresa. Ho studiato la storia e ho cercato di capirne la cultura. Ho persino cercato di imparare la lingua. Quando vi sono ritornata anni dopo, più matura e con più esperienze alle spalle, me ne sono innamorata più che mai. E poi la musica. E il balletto.

Per questo è così doloroso per me assistere alla carneficina che Putin sta infliggendo all’Ucraina. Alcuni tra i miei artisti scrittori e musicisti vengono da quel paese. Nikolai Gogol, Mikail Bulgakov e Aleksandr Solzhenitsyn. E Ilya Repin e Mikhail Larionov. E Sergei Prokofiev, l’autore della più incredibile suite musicale, The Dance of the Knights per per il più incredibile dei balletti, Romeo and Juliet di Kenneth McMillan. Persino la più famosa donna cecchino sovietica, Lyudmila Pavlichenko era ucraina.

E’ come assistere ad una guerra fratricida. Mi sembra puro autolesionismo.

Ukraine flag above the V&A, London 2022 © Paola Cacciari

A woman places flowers at  Saint Volodymyr in Holland Park, London 2022 © Paola Cacciari