Strana e insolita mostra questa del Victoria and Albert Museum, e soprattutto attuale, con i suoi trecento oggetti belli e spesso inquietanti, che esplorano il rapporto tra moda e natura dal 1600 ai nostri giorni.
Da sempre la moda dipende dalle ricchezze della natura non solo per l’ispirazione, ma anche e soprattutto per le risorse necessarie a soddisfare i nostri bisogno di calore e la nostra vanità. Risorse che non sono eterne. La domanda che la mostra si pone (e ci pone in quanto di consumatori) è semplice. Come possiamo conciliare le necessità della moda con quelle del pianeta? Cosa possiamo imparare dal passato? In pratica, è possibile rendere l’industria della moda sostenibile – o quantomeno, più sostenibile?

Il piano inferiore è dedicato alle glorie del passato – una festa di corsetti, stecche di balena, pellicce, cappellini con uccelli impagliati e cuscini imbottiti di crini di cavallo. Qui, delicati ricami e altrettanto delicati tessuti ci accompagnano in una passeggiata cronologica che attraversa il XVII, XVIII e XIX secolo, mentre al piano superiore trovano posto il design del XX secolo e del nuovo millennio.

È qui che ci si sofferma in particolare sulla produzione di tessuti artificiali che, soprattutto nell’epoca georgiana e vittoriana, hanno portato tessuti alle masse ad un costo altissimo per la natura. Un costo, quello dell’inquinamento atmosferico e delle acque di cui l’industria tessile è uno dei maggiori colpevoli e che ha spinto nuovi designer come Christopher Raeburn e Stella McCartney a battersi per creare una moda eco-sostenibile.
La scomparsa del Mare di Aral è uno dei più grandi disastri ambientali legati all’industria dell’abbigliamento. Quello che una volta ospitava migliaia di pesci e di animali selvatici è ora un vasto deserto dove i cammelli si muovono su quello che era un tempo il fondo del mare. La ragione della sua scomparsa è semplice: i fiumi che un tempo sfociavano in questo mare interno sono stati deviati deviati per irrigare i campi di cotone e rifornirli d’acqua. Inutile dire che questo cambiamento ambientale di dimensioni apocalittiche ha finito con l’influenzare tutto, dalle stagioni con estati più calde e inverni più rigidi, alla salute della comunità locale che si trova a far fronte alla mancanza d’acqua di vegetazione.
La cosa che ho trovato più sconvolgente però, è stato lo scoprire che la produzione del Denim necessario per il mio paio di jeans preferita ha consumato 7,600 di litri d’acqua. A causa della produzione di tessuti di contone una superficie d’acqua delle dimensioni dell’Irlanda è scomparsa nel giro di 40 anni.

Il fatto è che esiste una catena produttiva molto complessa nascosta dietro le etichette dei vestiti che indossiamo. la case di moda dichiarano solo il luogo in cui il capo è stato cucito, ma tacciono sulle altre fasi della manifattura, come la produzione della fibra, la sua filatura, la tintura, la stampa – fasi che spesso hanno luogo in paesi diversi, se non addirittura in continenti diversi, di solito in paesi sottosviluppati dove la mano d’opera costa poco e le leggi sull’ambiente sono altrettanto poche. L’esempio del Citarum in Indonesia, che scorre nei pressi della capitale Giacarta ed è considerato il fiume più inquinato al mondo è tristemente esemplare.
E’ solo dagli anni Ottanta tuttavia che da parte delle industrie del settore si comincia a vedere una certa consapevolezza del danno causato all’ambiente, consapevolezza che ha dato vita a pratiche alternative per la produzione di una moda etica oltre che estetica. Nel 2010 per esmpio, la Levis Strauss ha lanciato sul mercato Waterless>Jeans, un tessuto che usa il 96% in meno di acqua durante la produzione tessile. Altri stanno seguendo l’esempio. C’è ancora speranza di salvare il pianeta. Non perdiamo quest’occasione
2018 ©Paola Cacciari
Londra// fino al 27 Gennaio 2019
Fashioned from Nature
Victoria and Albert Museum, Londra
Ecco un aspetto insolito eppure per niente trascurabile… Alla topo di museo alias ineusaribile cacciatrice di mostre, complimenti e notevole sicuramente l’idea di dedicare una mostra a un tema (almeno mi pare) trascurato e che non dovrebbe esserlo.
LikeLiked by 1 person
Caro Guido, non avevo idea. Non che sia una grandissima consumatrice di moda, ma ho anch’io i miei peccati in fatto di T-shirts e camice di cotone. Quello che non sapevo era quanto il cotone fosse avido di acqua e che la produzione di cotone ha prosciugato il Lago d’Aral. Davvero. Robe da matti! 😦
LikeLiked by 1 person
Il lago d’Aral!!!! Sì, robe da matti. E dire che il cotone (verificavo puntuale fosse 100%|) come la lana pura vergine (il famoso marchio del pool internazionae di garanzia) sono le mie fibre da sempre… Quindi, tornare come dopo la guerra quando si usavano i capi allo stremo e si rivoltavano e rattoppavano dovrebbe diventare regola, mi pare. Altro che buttare perchè non mi piace, altro che “consumare per far girare l’economia”… tra bombe H e il resto, ho l’impressione che l’essere umano abbia inconscie tendenze suicide… (che sia più stupido della mia gatta – insisto, è il mio tormentone – non c’è dubbio)
LikeLiked by 1 person
I gatti sono intellegentissimi Guido. Magari gli esseri umani lo fossero altrettanto! 😉
LikeLiked by 1 person
SPERO TU NON ABBIA AVUTO DANNI DAL MALTEMPO.
LikeLiked by 1 person
Fortunatamente la mia citta’ non e’ stata toccata. Grazie per la tua cortesia, Buona serata!
LikeLiked by 1 person
Figurati, sono molto contento per te.
Buona serata anche a te. 🙂
LikeLiked by 1 person