Un anno intenso

Mentre il pianeta brucia e i suoi abitanti si scannano a vicenda, un’altro anno è passato: vedere la storia srotolarsi sotto i propri occhi non è poi cosi esaltante come può sembrare a leggerla sui libri anni dopo. Anzi. Da parte mia ho cercato di sopravvivere alle news razionando la dose di brutte notizie, che ho due patrie di cui preoccuparmi, io – l’Italia e la Gran Bretagna. E tra tutte e due, ce n’è abbastanza per deprimere un elefante (se i gentili pachidermi si deprimono). Così ho fatto cose e ho visto gente (come dice Nanni Moretti in Ecce Bombo). Molte cose, e molta gente. In pratica, ho fatto tutto fuorché scrivere questo blog.

Ho letto molti libri, una sessantina a sentire Goodreads, ho visto tante mostre incredibili, inclusa quella che Sotheby’s New Bond Street ha dedicato a Freddie Mercury prima di mettere in vendere il contenuto dell’incredibile collezione della sua casa londinese di Garden Lodge.  Ho visto tanto teatro, ascoltato tanta musica e ho gioito di quanta bellezza l’arte può donare all’anima. Ho anche finito di vedere The Crown ed ora mi sento in qualche modo orfana. Soprattutto ho fatto uno sforzo per essere socievole, e vedere di più amici e colleghi-amici, invece di dire sempre “forse” e poi non farlo. E mi è piaciuto. Forse anche per questo non ho scritto molto.

Ho esplorato parti dell’Inghilterra che non avevo mai visto e mi ancora una volta mi sono stupita del lavoro della natura, e di quello dell’uomo quando non è troppo impegnato a farsi la guerra; sono andata in vacanza con il mio compagno, per la prima volta dopo la pandemia. A Santorini, la più greca delle isole greche, e da quanto ho visto, anche la più turistica – tanto che era impossibile muoversi tra i gruppi di turisti scesi dalle navi da crociera. Fortunatamente noi stavamo dall’altra parte dell’isola: niente tramonti infuocati, ma pace e serenità (e prezzi più bassi…). Ma era da fare, almeno una volta nella vita. Anche sono per la foto “tipica” della cupola blu che si staglia sul mare a Fira… 😁

Ho passato due mesi a Bologna per questioni di famiglia: erano anni che non stavo tanto per tempo ed è stato bello, anche se ero spesso molto, troppo, occupata a lottare contro la burocrazia italiana per godermi amici e famiglia come avrei voluto. Ma ho riscoperto la mia città, e la mia lingua: parlando quasi sempre in inglese non mi ero accorta di quante parole avevo dimenticato. Ho letto tanto in italiano, ho (finalmente!) visitato la Fondazione MAST, e sono andata all’Opera e a Teatro a Bologna – cose che non faccio mai quando sono lì, perché non ho mai abbastanza tempo. Sono anche andata a Firenze dopo dieci anni che non andavo, e l’ho trovata un circo dato in pasto ai turisti. Ho riordinato le vecchie foto, e facendolo ho rivalutato una parte del mio passato, quello che per anni ho cercato di buttarmi alle spalle. Ho visto le mie amiche di sempre, quelle dell’università. Siamo ancora noi, nonostante tutto, nonostante la vita, gli anni. E’ bello.

Ho riflettuto su quanto del mondo ho visto e quanto potrò ancora vedere. E’ inutile negarlo: ho decisamente passato il ‘mezzo del cammin della mia vita’, e per quanto uno sia ottimista, è ovvio che la parte più grande della mia vita è alle mie spalle. Forse non potrò più visitare tutti i luoghi che vorrei vedere – guerre, instabilità politica, e costi di treni e aerei si sono coalizzati contro di me. Forse è per questo che gran parte dei libri che ho letto quest’anno erano di viaggio – Evelyn Waugh, Robert Byron, Patrick Leigh Fermor, i grandi viaggiatori del del passato che si muovevano quando i turisti erano pochi e il mondo aveva ancora magia da offrire. Forse dovrò arrendermi al fatto che sto invecchiando e semplicemente non ho più l’energia per fare le cose che avrei voluto fare. Ma rimarrò fino alla fine un’inguaribile adultoscente (il termine non è mio, anche se vorrei tanto averlo inventato io…), e ne sono contenta. Che a volte l’essere adulti è una cosa terribilmente sopravvalutata… 😉

L’abbazia di Northanger: leggere attentamente le avvertenze.

Il mondo è impazzito. Lo so, questa non è una scoperta recente, che basta aprire il giornale o guardare la TV o il cellulare per essere travolti da un’incessante valanga in cui guerre, terremoti, omicidi, inondazioni e incendi, si mescolano a inflazione, rincaro dei prezzi, Russia, Cina, USA, EU e alla politica instabile ovunque. Ma che l‘Università di Greenwich, nell’omonimo quartiere di Londra abbia sbattuto un’avvertimento per contenuti sensibili su L’abbazia di Northanger (Northanger Abbey) di Jane Austen, come veicolo di “stereotipi di genere” potenzialmente inquietanti e presenti esempi di “relazioni e amicizie tossiche” mi ha fatto veramente perdere le staffe. Ho chiuso il giornale di stizza e ho cominciato a imprecare. Esagerata? Forse. Ma è stata la classica ultima goccia. Che il Cielo ci aiuti! 🤦‍♀️

Premessa: sia chiaro, io non sono contro i content warning a priori, e sono d’accordissimo che la scuola debba essere un luogo sicuro per gli studenti e nessuno vuole innescare in nessuno ricordi che evochino traumi dolorosi. E se i docenti dell’Università di Greenwich non sono stati i primi a schiaffare avvisi relativi alla presenza di contenuti sensibili su materiale di studio che potrebbe turbare gli studenti (il primato spetta ancora una volta gli Stati Uniti e all’Oberlin College, Ohio), negli ultimi dieci anni questi avvertimenti sono diventati sempre più numerosi e inventivi. E questo ci porta a Jane Austen e alla mia filippica.

Fino ad ora L’abbazia di Northanger (pubblicato postumo nel 1817) era qualche modo sfuggito all’attenzione di siti web come Trigger Warning Database, dove i lettori possono controllare gli avvertimenti forniti da altri “sopravvissuti” ai traumi della letteratura, ma lo stesso non si può dire degli altri romanzi della Austen tutti opportunamente elencati con avvertimenti che includono ‘consumo di alcol’ (Emma, Orgoglio e Pregiudizio, Ragione e Sentimento), ‘schiavitù’ (Mansfield Park), “antiziganismo” l’odio per i Rom (Emma), ‘incesto’ (Mansfield Park), ‘classismo’ (Orgoglio e Pregiudizio), ‘misoginia’ (Orgoglio e Pregiudizio), ‘adescamento implicito’ (Emma), ‘depressione’ e ‘caccia agli animali’ (Ragione e Sentimento). 😱 Mi chiedo come abbia fatto a sopravvivere fino ad ora, data la mia veneranda età e l’inevitabile fardello di esperienze (tra cui amicizie tossiche e relazioni difficili, anche se non sono mai stata abbandonata da un Capitano dell’esercito di Sua Maestà) a sopravvivere alla lettura di Jane Austen! O alla letteratura in genere! D’ora in avanti mi avvicinerò ai libri con estrema cautela, nel caso manchi il content warning per un capellino fuori moda! 😜

2023©Paola Cacciari

Bye bye Museum of London 👋

Oggi chiude per sempre i battenti il Museum of London. Dopo 45 anni a London Wall, nel complesso brutalist del Barbican, il Museum of London trasloca poco lontano, a West Smithfield. Riaprirà i battenti nel 2026 con un nome diverso, ma non troppo: The London Museum.
E così ieri sono andata a dire addio ad uno dei miei musei preferiti, o meglio alla sua sede così fuori moda prima che sia demolita per far posto ad un blocco di uffici. Un altro capitolo della mia vita londinese che si chiude per sempre.

Chris Killip: il fotografo della deindustrializzazione inglese

Nella memoria popolare, gli anni Settanta sono passati alla storia come una sorta di ritorno al Medioevo, uno tra i periodi più cupi della Gran Bretagna dalla seconda guerra mondiale, schiacciato tra l’ottimismo degli anni Sessanta di Harold Wilson e i controversi anni Ottanta di Margaret Thatcher. Certamente quelli sono anni che né il mio compagno (inglese), né la sua famiglia ricordano con piacere. Ma se a Londra l’austerity non scherzava, nel Nord dell’Inghilterra la situazione era a dir poco disperata.

La crisi comincia già negli anni Sessanta, quando le giapponesi Yamaha, Suzuki, Honda. e Kawasaki cominciano a innondare il mercato con i loro prodotti, seguite a ruota da industrie tedesche e americane che primeggiavano nel mercato del dopoguerra accelerando la deindustrializzazione del Nord dell’Inghilterra. Le industrie britanniche – troppe, troppo piccole e prive di un sistema manageriale efficiente, semplicemente non riescono a competere con i giganti stranieri. Per intere comunità della classe operaia, basate nei pressi di particolare fabbrica, acciaieria o miniera dove la maggior parte degli uomini che svolgeva lo stesso lavoro del padre o del nonno, il collasso di queste industria significa l’inizio di un inarrestabile declino economico che si sente ancora oggi. Il declino dell’estrazione e della produzione di carbone nell’Inghilterra settentrionale ha portato a confronti con la Rust Belt negli Stati Uniti.

Entri Chris Killip (1946-2020). Nato nel 1946 all’Isola di Man, Killip lascia la scuola a sedici anni e nel 1964 decide di dedicarsi alla fotografia a tempo pieno, sbarcando il lunario come assistente nello studio londinese del fotografo di pubblicità Adrian Flowers. Ma il viaggio a New York del 1969 cambia tutto. Al Museum of Modern Art, ispirato dalle immagini di giganti come Walker Evans, August Sander e Paul Strand, Killip decide di cambiare rotta. Agli inizi degli anni Settanta, abbandona la sua carriera nella pubblicità e torna nella sua nativa Isola di Man per documentare la lenta erosione dello stile di vita tradizionale dell’isola. Successivamente, grazie a commissioni e borse di studio dell’Arts Council, Killip si sposta nel nord-est dell’Inghilterra, nel Northumberland e nel North dello Yorkshire dove, tra gli anni Settanta e Ottanta documenta il declino delle comunità della classe operaia che vivevano all’ombra delle industrie e che nel giro di pochi anni sarebbero state disperse.

Looking east on Camp Road, Wallsend, 1975. Photograph: Chris Killip

Chris Killip, Gordon in the Water, Seacoal Beach, Lynemouth, 1983. Courtesy: © Chris Killip Photography Trust and The Martin Parr Foundation

Chris Killip, Youth on Wall, Jarrow, Tyneside, 1975. Courtesy: © Chris Killip Photography Trust and  The Martin Parr Foundation

Guardando queste foto mi vivere in mente un’altra mostra fotografica alla Photographer’s Gallery e dedicata alla straordinaria This Murtha. Le sue immagini dei giovani della periferia di Newcastle Upon Tyne, che si affacciavano alla vita adulta senza opportunità, vittime di una società che non era in grado di offrire una soluzione o un’alternativa declino industriale e la stagnazione economica. Il Giovane appoggiato al muro di Killip e i giovani disoccupati di Tish Murtha sono cresciuti e hanno votato per la Brexit.

London// fino al 19 Febbraio 2023 @ The Photographers’ Gallery, London

La fine di un’epoca: quella di Elisabetta II 👑

Certo che l’ho guardato il funerale della Regina. Che sarebbe stato strano vivere nell’ombelico del mondo senza condividerne un pezzo di storia così importante.

Ma tra le molteplici emozioni che che quelle immagini storiche mi hanno trasmesso – la gloriosa parata, la corona, i fiori, la bandiera che ricopre la bara contenente i resti mortali di Elisabeth II – niente come quella mano guatata che gentilmente accompagna il feretro che, sulle spalle dei soldati, sale i gradini di St George Chapel al Castello di Windsor, sembra mettere la definitiva parola FINE ai settant’anni della seconda epoca elisabettiana.

LondonLife – Scenes from the Platinum Jubilee celebrations…

Queen Elizabeth II on the balcony of Buckingham Palace along with members of the Royal Family. PICTURE: SAC Connor Tierney/UK MOD © Crown copyright 2021 Four days of celebration were held from Thursday to Sunday to mark Queen Elizabeth II’s Platinum Jubilee. Here’s a short selection of images from the events… The Gold Coach takes […]

LondonLife – Scenes from the Platinum Jubilee celebrations…

C’era una volta il biglietto di carta…

C’era una volta in un tempo lontano, quella piccola cosa che si chiamava biglietto di carta. Per andare a teatro, al cinema, ad un concerto o ad un museo, in aereo o a qualche evento sportivo, si riceveva un piccolo tagliando colorato che attestava l’avvenuta transazione e il nostro diritto si entrare nel reame (più o meno) fatato per cui ci si era dati pena di attendere in fila, e pagare.

Ricordo con affetto i distributori automatici di biglietti nell’atrio principale della Royal Festival Hall o del National Theatre. Prenotavo spettacoli e concerti da casa e quando passavo da quelle parti, inserivo la mia carta di credito e la macchinetta si metteva in moto, stampando allegramente i miei biglietti per gli eventi per i mesi a venire. Riponevo quei tesori in una busta e ogni tanto li andavo a guardare, pregustando gioie future: una soddisfazione pazzesca.

Poi è arrivato il Covid e, quella che già era una tendenza diffusa, ma opzionale (che si poteva scegliere tra il biglietto fisico e quello digitale) è divenuta standardizzata a Londra. Certo, consentendo di effettuare la transazione senza alcun contatto, l’e-ticket e il QR code necessario per il sistema Test and Trace del governo, hanno permesso a musei, teatri, negozi e ristoranti e di riaprire cautamente le porte al pubblico nel bel mezzo della pandemia. Che al giorno d’oggi, poiché anche lo smartphone più basilare può scaricare e visualizzare gli e-ticket, non è necessario stamparli, sono più economici, sostenibili e non si perdono nella posta o tra le pile di carta della scrivania…

Ma a livello emotivo, non sono la stessa cosa. Almeno non per me che da quando ero piccola conservo i biglietti delle cose che faccio, degli spettacoli a cui vado, delle mostre che vede. Biglietti che trovano posto su l’album di ritagli del momento, insieme a qualche nota personale, e che mi piace riguardare ogni volta che mi sento nostalgica. Stampare i biglietti digitali non ha senso – vanifica l’idea stessa della sostenibilità. E comunque non è la stessa cosa.

E se i vantaggi della tecnologia e digitalizzazione che ci separano da certi oggetti fisici ormai considerati obsoleti come i CD, i DVD, le musicassette e i biglietti di carta appunto – bisogna convenire che guardare con aria sognante un codice a barre, non da’ certo la stessa soddisfazione del rigirare tra le mani un colorato biglietto stropicciato. Che difficilmente un QR code sarà in grado di sollecitare nel nostro cervello quelle epifanie sensoriali che Proust chiamava memoria involontaria, in grado di restituirci un ricordo intatto, insieme alle sensazioni fisiche che si erano provate, gli odori, i colori, i suoni…