Modern Talking – You’re My Heart, You’re My Soul

Alzi la mano chi si ricorda dei Modern Talking il duo tedesco composto da Dieter Bohlen e Thomas Anders. Non molti? Suvvia, almeno voi ex adolescenti degli anni Ottanta non fingete, che questo You’re My Heart, You’re My Soul e’ stato il tormentone dell’estate 1984! 🙂 I capelli alle Charlie’s Angels poi sono notevoli! 🙂

Il Cappellaio Matto: Stephen Jones

Spulciando tra gli articoli che ho scritto in passsato per Exibart ho trovato questo di una mostra dedicata allo stilista Stephen Jones tenutasi al V&A nel 2008. All’epoca non sapevo chi fosse il signore in questione, ma conoscevo tutti gli altri di nomi…

Portrait of Stephen Jones
                                                            Portrait of Stephen Jones

Un giardino ‘barocco’ al tramonto. Siepi ordinate e bassi steccati. Luci soffuse. E magia nell’aria: benvenuti nel magico mondo di Stephen Jones (Wirral, 1957- vive a Londra). Non siamo tra le pagine di Alice nel paese delle meraviglie, ma negli spazi avvolgenti di Hats: An Anthology by Stephen Jones, la nuova mostra curata per il Victoria and Albert Museum da uno tra i più geniali creatori di acconciature femminili della nostra epoca.

Silk and straw bonnet, 1807
Silk and straw bonnet, 1807

Frustrato dalla noiosa uniformità che permeava la moda di fine anni Settanta, tutta toni beige e tessuti tweed, Stephen Jones – allora punk dalle unghie smaltate che studia alla prestigiosa St Martins School of Art di Londra- decide di riversare la sua ironica creatività nella creazione di cappelli da donna. Mossa coragiosa. Soprattutto in un periodo in cui indossarne uno non era affatto cool. Ma con l’avvento della nuova decade tutto cambia. Gli anni Ottanta vedono Londra al centro di uno dei periodi più brillanti e oltragiosi della storia del costume. Con le sue stravaganti acconciature ispirate alla storia della moda, il movimento New Romantic trasforma il concetto di cappello da polveroso obbligo da indossare ai matrimoni in accessorio pieno di vitale ironia. Al cuore della scena giovanile locale, la musica pop ha un’enorme importanza per Jones. Abbandonato il punk per il New Romantic comincia a frequentare il leggendario Blitz club in Covent Garden e crea copricapi per amici come Boy George e Spandau Ballet. Ed è grazie alla musica dei Culture Club che, nel 1984, lo stile di Stephen Jones raggiunge le passerelle parigine. Jean-Paul Gaultier vede il video di ‘Do You Really Want to Hurt Me’, in cui Jones indossa un fez da lui stesso disegnato, e lo invita a collaborare con lui. E il resto è storia.

Da sempre affascinato dalla psicologia del cappello, o meglio da ciò che porta e com-porta l’indossarlo Stephen Jones ha creato – con la collaborazione del disegnatore teatrale Michel Howells e dalla curatrice del V&A Oriole Cullen- un mondo fantastico popolato da oltre trecento copricapi, molti dei quali letteralmente ‘dissotterrati’ dall’immensa collezione del V&A. Tematicamente suddivisa in quattro sezioni –Inspiration, Creation, The salon, The client– la mostra esplora l’intero ciclo della vita del cappello, strizzando l’occhio alla storia del costume. E così se gli appasionati di storia possono gioire davanti alla maschera di Anubi del 600 A.C. e all’esuberante cappellino del 1845 appartenuto ad una giovane regina Vittoria ancora lontana dalla vedova triste a cui la storia più ha abituati, per gli amanti del cinema ci sono il tricorno indossato da Johnny Deep in Pirati dei Caraibi, il cappello di paglia di Audrey Hepburn in My Fair lady e il copricapo in plastica del cattivo di Guerre Stellari, il tetro Darth Vader, esibito a fianco dell’elmo da samurai a cui è ispirato.

Portrait of Stephen Jones, 2008
                                                             Portrait of Stephen Jones, 2008

E naturalmente non mancano le creazioni di Jones per Christian Dior, John Galliano e Giles Deacon, accanto a quelle ‘storiche’ di <b>Elsa Schiaparelli, Cecil Beaton e Baleciaga. Accessorio universale, il cappello è per tutti, giovani e meno giovani allo steso modo. Finisce e definisce un look. Rispecchia la personalità di chi lo indossa. Come sanno le celebri clienti di Stephen Jones. Regine del Pop come Madonna e Kylie Minogue e regine di altro tipo, da sua Maestà Elisabetta II a Carla Bruni nella sua nuova veste di signora Sarkozy. Piume, nastri, fiori, legno, plastica e chi più ne ha più ne metta: tutto può diventare un cappello, anche un disco a quarantacinque giri. A patto che il tutto sia condito da una buona dose di satira e di spiritosa ironia, caratteristiche possedute in abbondanza dagli inglesi e che Jones eleva all’ennesima potenza. E davanti a tanta ottimistica esuberanza e gioiosa frivolezza, si sorride. E apertamente, si ride. E, segretamente, si sogna.

Londra// fino al 31 maggio 2009

vam.ac.uk

 

I favolosi anni Ottanta @Victoria and Albert Museum

Mai come negli anni Ottanta Londra è stata l’ombelico del mondo. Soprattutto quando si parla di nuove tendenze. E anche se la mia dolce metà inorridisce solo al sentirmelo dire, avrei voluto esserci. O almeno passarci. Erano gli anni in cui David Bowie regnava sovrano – gli anni post Ziggy Stardust e Aladdin Sane, quando personaggi come Boy George e i fratelli Martin e Gary Kemp investiti dal ciclone Bowie, fondano rispettivamente i Culture Club e gli Spandau Ballet. Erano gli anni di Adam Ant e del suo costume da pirata e di George Michael con le T-shirtst di Katharine Hamnett con scritte provocatorie contro il regime della Thatcher

Katherine Hamnett T-shirt that says 'stay alive in 85'
T-shirt designed by Katherine Hamnett in 1984. Photograph: Mike Kitcatt/Victoria and Albert Museum, London

Ma sono stati anche gli anni in cui mai come prima moda e musica sono andate di pari passo. E visto che ho vissuto tutto questo solo da lontano, ora non mi resta altro che divertirmi con programmi televisivi come quello di iei sera su ITV o con mostre come quella che l’anno scorso ha deliziato il pubblico (e lo staff) del Victoria and Albert Museum.Parlo di Club to Catwalk (2014) il cui tema era la moda a Londra negli anni Ottanta, quando una nuova generazione di stilisti e designers come Betty Jackson, Katharine Hamnett, John Galliano, Jasper Conran, Vivienne Westwood, Wendy Dagworthy e Stephen Jones influenzati dalla nuova scena musicale  dei club (nel senso di night-club) si danno da fare per reiventare la moda stessa – anche se non necessariamente in modo migliore: chi non  ricorda con  orrore la permanente da barboncino di Kylie Minogue, le maniche a raglan dei maglioni o le “spallone” superimbottite da giocatore di Football Americano delle giacche?

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                                    Adam Ant

Più che una mostra, un vero e proprio tuffo nel passato con tanto di colonna sonora video-musicale che, per i nostalgici ex-adolescenti di quel periodo come la sottoscritta, aveva lo stesso effetto di una  madeleine di Proust (con tutto il rispetto per il grande francese, ma il paragone rende l’idea) soprattutto quando riportano alla luce dai meandri del dimenticatoio canzoni come questa e questa che rendono impossibile non ballare. Che quelli della mia generazione che per motivi geografici oltre che anagrafici, avevano mancato in un colpo solo la nascita del punk rock (avevo sette anni quando The Clash fecero un concerto a Bologna), non appena raggiunta l’adolescenza cercavano di rifarsi come potevano aggrappandosi disperatamente agli ultimi rigurgiti della New Wave – qualunque cosa fosse (che io all’epoca non l’avevo mica tanto capito…). E la Bologna degli anni Ottanta si ritovò invasa da una folla di adolescenti multicolori che indossavano T-shirts da surfista e il mullet (come si chiamava quel terribile taglio di capelli che ha tormentato gli anni Ottanta) o che, volento essere alternativi, giocavano a fare i misteriosi con il Gothic look (che in Italia si chiamava Dark) ispirato a Robert Smith dei Cure. Questi nuovi “looks” in Inghilterra erano documentati  in riviste del settore come The Face e Blitz. E  così ebbe inizio una decade contrassegnata da un modo di vestire al limite della teatralità. Una moda era senza limiti, liberata e controcorrente.

Mandatory Credit: Photo by MAURO CARRARO / Rex Features (111660b)  SIMON LE BON OF DURAN DURAN 1984  Tube Music Box in St Tropez, France - 1984
Simon Le Bon. Photo by MAURO CARRARO / Rex Features

Naturalmente, come ogni adolescente che si rispetti, anch’io ero pazza del bellone di turno che, nel mio caso (e non solo nel mio), era Simon le Bon il cantante dei Duran Duran. Sognavo che il miracolo accadesse e lui apparisse all’orizzonte per salvarmi da una vita piatta e grigia fatta di mattinate a scuola e di sabati pomeriggio trascorsi con le amiche da Nannucci 9(quando ancora esisteva quel negoszio di dischi) a spulciare tra dischi che non avrei mai comprato (anche perchè non avevo il giradischi, ma solo un monumentale stereo mangiacassette). Avevo cominciato a studiare ossessivamente l’inglese in caso Simon apparisse al mio orizzonte e in un momento di follia mi ero fatta persino tagliare i capelli come lui con risultati quantomeno disastrosi, che a poarte le pop stars e qualche attore difficilmente il mullett si adattava ai comuni mortali come me che non avevano un filo diretto con il parrucchiere o un conto aperto con una fabbrica di lacca per capelli.

E poi, come sempre accade in questi casi, Simon lo vidi per caso anni dopo proprio a Bologna, intento a firmare autografi all’ingresso del Grand Hotel Baglioni un giorno di Settembre del 1995, quando ormai il mio cuore era tutto preso da Axl Rose e Kurt Kobain. Un solo un attimo di esitazione, un sorrisetto nostalgico sulle labbra prima di proseguire per la mia strada lasciando le nuove fan dei Duran Duran ad accapigliarsi sulle scale senza di me. Che la vita è fatta così: un po’ bastarda.