Buon compleanno Sergei Diaghilev

Cento cinquanta anni fa, nel 1872 in famiglia aristocratica di Novgorod, nasceva l’artefice della prima, vera rivoluzioni russa: Sergej (Serge) Pavlovič Djagilev. La rivoluzione creata dalla visione di Diaghilev nel mondo del teatro influenzerà le arti visive e la danza cambiando per sempre non solo coreografie e scenari, ma anche il gusto del pubblico. Diaghilev è passato alla storia per aver portato il balletto in generale – e il balletto russo in particolare – nel mondo degli sponsor privati (o quasi), nonchè per essere stato il più famoso omosessuale dal tempo di Oscar Wilde (che non a caso aveva incontrato e per cui nutriva grande stima).

Prima di diventare l’impresario per eccellenza e sconvolgere così le consuetudini del pubblico e della critica dell’inizio del Novecento, Sergei tuttavia intraprende altre strade – studia legge all’università, si dedica alla pittura, al canto e alla musica. Da critico d’arte e amante del balletto, diventa consigliere artistico dei Teatri Imperiali di San Pietroburgo prima di fondare con gli amici Leon Bakst e Alexandre Benois la rivista d’avanguardia Mir Iskusstva (Il mondo dell’arte). Ma la vicinanza allo zar non gli impedisce, quando scoppia la rivoluzione del 1905, di schierarsi con i rivoluzionari e appoggiare lo sciopero dei ballerini del Teatro Imperiale. 

Sempre nel 1905 organizza a San Pietroburgo un’esposizione di ritratti russi e, l’anno successivo, un’importante mostra di arte russa al Petit Palais di Parigi, considerata la più grande e completa in Europa. Vi partecipano molti artisti del tempo, da Aleksandr Nikolaevič Benois a Kostantin Somov ai più giovani Michail Fëdorovič Larionov e Natalia Gontcharova. L’ascesa di Sergei Diaghilev sembra inarrestabile. Nel 1907 presenta cinque concerti di musica russa a Parigi e nel 1908 mette in scena una produzione del Boris Godunov con Fëdor Šaljapin all’Opéra di Parigi. L’organizzazione di esposizioni d’arte e di concerti di musica russa a Parigi segna l’inizio di un lungo rapporto con la Francia.

Affascinato dal balletto, che occupa (e ha sempre occupato) nella cultura russa un ruolo molto più importante che in qualsiasi altra nazione europea, incluse Francia e Italia dove la danza classica era nata all’inizio del XIX secolo, Diaghilev si imbarcò nell’avventura che diventerà la sua ragione di vita. Era il 1909.

Lavoravo da qualche anno al museo quando il V&A allestì una strepitosa mostra dedicata al padre di tutti gli impresari, dal titolo Diaghilev and the Golden Age of the Ballets Russes, 1909 – 1929. Scenari teatrali, costumi di scena, poster, filmati d’epoca cronologicamente organizzati in tre sale, raccontavano la storia della compagnia e le sue alterne fortune – fortune che spesso ridussero sull’orlo della bancarotta sia Diaghilev che i suoi sponsor. E se materiali, costumi e poster erano storicamente interessanti, fu il potere evocativo dei piccoli oggetti quotidiani a catturare la mia immaginazione: un paio di logore scarpette da ballo, il manoscritto de L’uccello di Fuoco di Stravinsky pieno di ripensamenti e di cancellazioni, le poche cose possedute da Diaghilev – il suo mantello  da viaggio, l’inseparabile cappello a cilindro e i binocoli con cui ha osservato i trionfi (e gli occasionali disastri) della sua compagnia. Testimoniavano il duro lavoro dietro la leggenda dei Balletti Russi.

"Sergej Diaghilev (1872-1929) ritratto da Valentin Aleksandrovich Serov" by Valentin Alexandrovich Serov - PDF (for version uploaded on 2 January 2014). Licensed under Public Domain via Wikimedia Commons - https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Sergej_Diaghilev_(1872-1929)_ritratto_da_Valentin_Aleksandrovich_Serov.jpg#/media/File:Sergej_Diaghilev_(1872-1929)_ritratto_da_Valentin_Aleksandrovich_Serov.jpg
“Sergej Diaghilev (1872-1929) ritratto da Valentin Aleksandrovich Serov” by Valentin Alexandrovich Serov .

Che per esempio non sapevo che la compagnia di Diaghilev che per la cronaca comprendeva i migliori giovani ballerini russi, quasi tutti provenienti dal Teatro Mariinsky di San Pietroburgo, come Anna Pavlova e Vaslav Nijinskij (la stella della compagnia, con cui l’impresario ebbe un’appassionata relazione) avesse collaborato con moltissimi artisti delle Avanguardie artistiche del Novecento, come Derain, Matisse e Picasso. Di Picasso il V&A si era assicurato il monumentale sipario de Le Train Bleu, disegnato nel 1924 e da lui formalmente dedicato a Diaghilev. Sarà il sipario ufficiale dei Balletti Russi per gli anni a venire, i segni dell’usura e le pieghe della sua superficie un testamento alla durezza della peripatetica esistenza di Diaghilev e della sua troupe durante i venta’nni della loro esistenza.

O che avesse lanciato le carriere di musicisti come Stravinskij, Prokofiev, Rimsky-Korsakov e dei miei adorati francesi Satie, Debussy e Ravel. Stravinskij, in particolare, compose le musiche per balletti come L’Uccello di fuoco, Petrushka,  La sagra della primavera (titolo originale francese Le Sacre du printemps) quest’ultimo con la coreografia di Vaslav Nijinsky e la prima al Theatre des Champs-Elysées di Parigi fece scoppiare un vero e proprio pandemonio (come spesso accadde con i Balletti Russi, diciamocelo) tra quelli che ritenevano questo balletto un abominio e quelli che invece lo esaltavano vedendo in esso la nascita della musica moderna.

Diaghilev reinventa la sua compagnia come laboratorio e piattaforma di lancio per le avanguardie, collaborando con artisti come Picasso, Cocteau, Derain, Braque e Matisse e lanciando la carriera di musicisti come Stravinskij e Prokofiev. Inizialmente ispirata all’arte russa della fine del XIX secolo, la compagnia dei i Balletti Russi durante i vent’anni della sua esistenza pertipatetica cambia completamente la percezione europea in fatto di musica, colore e movimento. Da Scheherazade che unisce la musica di Rimsky-Korsakov, il virtuosismo di Nijinsky e i disegni di Léon Bakst, a Parade che vede all’opera i geni di Eric Satie, Cocteau e Picasso.

Vaslav Nijinsky in Le Spectre de la Rose, by Bert, 1913. Valentine Gross Archive, © Victoria & Albert Museum, London
Vaslav Nijinsky in Le Spectre de la Rose, by Bert, 1913. Valentine Gross Archive, © Victoria & Albert Museum, London

Ma durante i devastanti anni della Prima Guerra Mondiale (1914-18) la compagnia si trova tagliata fuori dai grandi circuiti dell’Europa occidentale di Londra, Parigi, Berlino e Montecarlo. E improvvisamente tutto cambia. Se nel 1914 Diaghilev e Stravinsky erano rispettabili cittadini dell’Impero Russo, quattro anni dopo si trovano improvvisamente esiliati e senza patria, in fuga da una Russia Bolscevica devastata dalla Guerra Civile. Con un ultimo colpo di coda, Diaghilev orchestra l’entrata in scena dei modernisti russi Natalia Goncharova, Mikhail Larionov e Naum Gabo, e la collaborazione con i Futuristi italiani di Marinetti. Ma ultimi anni dei Balletti russi ebbero raramente il successo incondizionato delle prime stagioni. Era finita un’epoca, e nel 1929 la compagnia di danza si scioglie.

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Illustrations by Léon Bakst

Diaghilev si spegne, povero ed esausto nell’agosto del 1929, al ‘Hotel des Bains al Lido di Venezia. Così povero infatti, che il suo funerale fu pagato dalla sua amica Coco Chanel. Per uno che un volta disse che “non si può vivere, si può solo essere” Diaghilev ha vissuto la sua vita con sorprendente intensità. Il repertorio dei Ballets Russes ancora oggi cattura l’immaginazione, portato nel mondo da alcuni dei suoi più celebri ballerini e devoti studenti – George Balanchine negli Stati Uniti, Ninette de Valois in Gran Bretagna, Serge Lifar a Parigi presso l’Opéra.

Londra// fino al 9 Gennaio 2011 Diaghilev and the Golden Age of the Ballets Russes, 1909 – 1929 @ Victoria and Albert Museum vam.ac.uk

2022 ©Paola Cacciari

And Quiet Flows the Don (1928) by Mikhail Sholokhov

“When swept out of its normal channel, life scatters into innumerable streams. It is difficult to foresee which it will take in its treacherous and winding course. Where today it flows in shallows, like a rivulet over sandbanks, so shallow that the shoals are visible, tomorrow it will flow richly and fully.”

Mikhail Sholokhov

 

 

La cucina sovietica: una storia di cibo e nostalgia

Anche per me, come per Tatiana Larina di Parla della Russia, continua l’ossessione per tutto ciò che è Russo-Sovietico.
Un giorno ficcanasando nel blog dei ‘russi’ ho trovato questa storia dell’Unione Sovietica vista attraverso la cucina.E siccome che anch’io adoro mangiare e anche cucinare, mi sono precipitata a comprare questo memoriale di Anya von Bremzen, dove storia sociale e storia personale si intrecciano in modo tenero, divertente, e illuminante. Buona lettura!

Anya von Bremzen and her mother in Philadelphia in 1978
Anya von Bremzen and her mother in Philadelphia in 1978

PARLA DELLA RUSSIA

Cucina_sovieticaTatiana continua con il suo periodo russo-sovietico. Dopo Tutto scorre… è alle prese con una storia dell’Unione Sovietica vista attraverso la cucina. E questa sì che è nuova.

Idea originale: ripercorrere 70 anni di storia attraverso i piatti e gli alimenti presenti sulle tavole dell’impero sovietico, per decennio. Molto deve a classici come I Biscotti di Baudelaire, ma con meno ricette e più storia.

Operazione originale? sì. Riuscita? in parte.

Autobiografico, il libro offre prospettive differenti. Può essere letto come una saga familiare, dato che in effetti l’autrice ripercorre la storia sovietica attraverso quella della propria famiglia, a partire dai nonni, con particolare attenzione al ramo materno e alle origini ebraiche. La famiglia materna è fortemente radicata nel regime sovietico, cui la dissidenza succeddiva delle generazioni giovani sarebbe stata parecchio aliena.
Accanto al livello personale e familiare, vi è l’URSS raccontata sia attraverso fatti storici che attraverso aneddoti, cronache, pettegolezzi…

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Spartacus. Ovvero, la potenza del balletto del Bolshoi

Forse solo un marziano non conosce la storia di Spartaco e degli schiavi rivelli nel 73 a.C., diventata nota anche grazie al film di Stanley Kubrick nel 1960 e interpretato da Kirk Douglas. Alla fine del film, sconfitta la rivolta, Crasso propone ai sopravvissuti dell’esercito degli schiavi ribelli (tra cui c’è anche Spartaco) di identificare (vivo o morto) il loro comandante, in cambio della loro vita – una vita che comunque dovranno trascorrere nuovamente in schiavitù. Spartaco decide di consegnarsi, ma quando sta per alzarsi, tutti i suoi compagni fanno lo stesso, pronunciando ognuno la frase “Io Sono Spartaco!”.

Nelle mani di Yuri Grigorovich la storia della ribellione degli schiavi diventa l’allegoria di un popolo oppresso (quello sovietico) che lotta coraggiosamente per rovesciare una classe dirigente fascista e decadente. Creato nel 1968, lo Spartacus del Bolshoi è un’opera tipicamente sovietica, e tipicamente “del” Bolshoi, un luogo dove le dimensioni contano – non per niente il nome del teatro significa “grande” in russo. E come il Bolshoi, questo è un balletto di dimensioni straordinarie, a cominciare dall’esercito di ballerini necessari per un tale spettacolo, tutti identicamente e perfettamente addestrati per finire (ma solo metaforicamente) con la grandiosa musica di Aram Khachaturian.

Denis Rodkin (Spartacus) in Spartacus by the Bolshoi Ballet at Royal Opera House, London. Photograph Tristram KentonThe Guardian
Denis Rodkin (Spartacus) in Spartacus by the Bolshoi Ballet at Royal Opera House, London. Photograph Tristram KentonThe Guardian

La trama è semplice, come lo sono i quattro personaggi principali: il nobile, indomito gladiatore Spartacus, Frigia, la sua amata, bella e dal cuore puro, il folle Crasso, capo dell’esercito romano e la venale cortigiana Aegina. Gli uomini dominano il palco: schiavi e soldati che si muovono all’unisono, dritti come le loro spade, e poi lo Spartaco di Denis Rodkin che affronta il console romano Crasso (Artemy Belyakov).

Più che in frasi liriche, la coreografia di Grigorovich si esprime in spettacolari tableau che utilizzano blocchi di ballerini e cortigiane illuminati da un chiaroscuro di sapore caravaggesco, che entrano ed escono dalla scena muovendosi in perfetto accordo.

Denis Rodkin (Spartacus) and Anastasia Denisova (Phrygia) in the Bolshoi’s Spartacus. Photograph Tristram KentonThe Guardian
Denis Rodkin (Spartacus) and Anastasia Denisova (Phrygia) in the Bolshoi’s Spartacus. Photograph Tristram KentonThe Guardian

Spartacus è un vero tour de force, non solo da parte dei solisti (Irek Mukhamedov, l’indiscusso Spartaco del Bolshoi dal 1986 al 1991, famosamente ha detto scherzando che la cosa piu’ soddisfacente del ruolo era arrivare vivi alla fine del balletto…), oltre ad essere una meravigliosa esibizione di potenza da parte del corpo di ballo del Bolshoi.

Ed è anche incredibilmente divertente e interessante: la narrativa  tipicamente cinematografica infatti lo rende una sorta di film ‘danzante’ che alterna melodrammatici pas de deux che sfidano la gravità (come quello in cui Spatacus/Rodikin alza Phrygia/Denisova con un solo braccio, momento in cui l’intero teatro di Covent garden e’ esploso in un sonoro applauso…) a *vagamente cominci) baccanali ed esplosive scene di battaglie, il tutto unificato dalla straordinaria partitura di Khachaturian, con le sue potenti percussioni, il suo romantico tema d’amore e qualche sorprendente tocco di jazz spizzicato qua e la’. Spartacus insomma è ancora un balletto per le masse e le masse contunuano a godreselo alla grande. Certamente io l’ho fatto (e non solo per i vigorosi giovanotti in calzamaglia… 😜)

 

Bolshoi Ballet @ Royal Opera House London

Monday 29 July-Saturday 17 August 2019

http://www.roh.org.uk/about/bolshoi

2019 © Paola Cacciari

La Casa del Futuro al Design Museum

C’è una scena ne  Il ragazzo di campagna del 1984 in cui Renato Pozzetto alias Artemio, decide di lasciare il piccolo paese lombardo in cui è nato e ha sempre vissuto, per cercare fortuna a Milano. Nella metropoli trova alloggio in un fin troppo moderno monolocale in cui lo spazio è razionalizzato all’ennesima potenza: pareti scorrevoli trasformano l’angolo cottura in bagno o in zona giorno, il tavolo ribaltabile con tovaglia al metro e sedie pieghevoli e rientranti.  Un po’ come la Total Furnishing Unit, l’unità abitativa compatta progettata da Joe Colombo nel 1972, dove si poteva vivere in soli 28 metri quadrati esposta al Design Museum, parte della mostra Home Futures.

Che se il problema dello spazio è esistito da quando la Rivoluzione Industriale aveva fatto accorrere le masse contadine a cercare lavoro nelle fabbriche tessili nella Gran Bretagna del Settecento, non è mai stato così pressante come nel nostro secolo. E come sarà la casa del futuro è un interrogativo che gli architetti e i designer si sono posti sin dal tempo della Russia post-rivoluzionaria, quando El Lissitzky tenta di progettare appartamenti compatti per i lavoratori sovietici, con letti aerodinamici modello pre-Le Corbusier. E come dimenticare i mobili ultramoderni di Villa Arpel, quelli creati per il film francese del 1950 Mon Oncle di Jacques Tati, a cui fanno eco quelli contemporanei dell’Ideal Home del 1956, la casa del “futuro” in cui tutto è automatizzato, abitata da una coppia moderna il cui momento chiave della giornata è quello di far apparire il tavolo della sala da pranzo premendo un bottone.

 Joe Colombo, Total Furnishing Unit All domestic functions in 28 square meters. Credit | Ignazia Favata / Studio Joe Colombo.
Joe Colombo, Total Furnishing Unit All domestic functions in 28 square meters. Credit | Ignazia Favata / Studio Joe Colombo.

Stupiti? Non dovreste. Che il dopoguerra portò con sé oltre ad un supersonico boom economico, anche un incontrollato sviluppo edilizio e un’altrettanto incontrollata crescita delle città. E non solo in Italia. Per un breve momento  infatti, tra gli anni Sessanta e Settanta, sembrava che il sogno della casa automatizzata, razionale e futuristica fosse lì per lì per realizzarsi. Nel futuro immaginato dagli architetti più progressisti, le abitazioni non sarebbero state più in materiali statici come mattoni e cemento, ma fatte di membrane di plastica trasparenti, facilmente trasportabili ovunque e trasformabili in pratici spazi casa/lavoro con vista a 360◦ sul proprio giardino preferito come quelle progettate da Hans Hollein.

Hans Hollein in his transparent Mobile Office, 1969. Photograph: Gino Molin-Pradl, Copyright: Private Archive Hollein

Ma come spesso accade, tra il dire e il c’è di mezzo il mare che in questo caso (a parte la scomodità di dover avere sempre a portata di mano un compressore per gonfiare la bolla una volta arrivati in giardino…), si è materializzato sotto forma della crisi del petrolio del 1973. Che saranno anche stati futuristici, ma questi progetti presumevano infatti illimitate forniture di energia a basso costo per riscaldare e raffreddare questi i rifugi mobili. La bolla è scoppiata e la moda architettonica lasciò così il posto al Postmodernismo, uno stile che non pretendeva di cambiare il mondo o la vita delle persone, ma solo di intrattenerli e tenerli al caldo e al coperto. E la dura realtà per gli architetti è accettare che la casa del futuro è sorprendentemente simile a quella del passato, certo più confortevole ed ecologica, ma sempre fatta da pareti soffitti, cucine, camere da letto etc etc.

ome Futures exhibition at the Design Museum, London

In breve, la storia si ripete e il sogno degli architetti di costruire case aperte, organiche, economiche e sostenibili, si è rivelato ancora una volta (appunto) un sogno e che la maggioranza dei comuni mortali in ogni grande città, deve accontentarsi di quello che trova.

A volte l’ottimismo senza fiato viene temperato dall’ironia, come nel caso dell’architettura radicale del gruppo italiano Archizoom Associati che nel 1970 con la loro No Stop City propongono non una città migliore, ma una città adeguata ai bisogni della nuova modernità, dove il design prevale sull’architettura e dove progetti provvisori e fluidi prevalgono su quelli tradizionali, e  in cui i nomadi moderni possono vivere senza oggetti o definire la loro casa come meglio preferiscono.

A universal grid that would allow all humans to live a nomadic life. Supersurface was a speculative proposal for a universal grid that would allow people to live without objects or the need to work, in a state of permanent nomadism. Credit | Superstudio, Supersurface: The Happy Island, 1971. Image: The Museum of Modern Art, New York/Scala, Florence.

Resta da vedersi se questo futuro sia da considerarsi una cosa buona o meno. Già negli anni Venti, i film di Sergei Eisenstein mostrano un mondo dalle case trasparenti, che accese negli architetti contemporanei la passione per le strutture fatte di vetro, dove la perdita della privacy e le possibilità di sorveglianza diventano una spaventosa realtà  nella Russia di Stalin. Ma l’idea della casa di vetro non è poi tanto surreale anche nella nostra società, che  quelle in cui viviamo saranno anche di pietra, ma le case sono divenate trasparenti come la bolla di Hollen (citare Stalin mi pareva esagerato…) da quando internet è entrato nelle nostre vite. L’idea della condivisione dell’essere connessi 24 ore su 24 ha reso l’idea stessa della privacy intrinsecamente fluida, trasformandola in qualcosa con cui non siamo interamente a nostro agio. Almeno io non lo sono.

Allo stesso tempo, un altro problema si pone agli abitanti delle città moderne, vale a dire trovare un luogo decente in cui vivere. Senza di questo è irrilevante considerare un progetto di doccia mobile (sebbene quella progettata da Ettore Sotsass, gridi all’ottimismo e all’ironia) se non c’è lo spazio in cui muoverla… Mi sembra che la tecnologia non faccia altro che sostituire spazio fisico con quello digitale: intere librerie possono stare in un kindle, mentre per CD e DVD ci sono iTunes e le chiavi usb. Che il bisogno di spazio sta diventando un problema pressante non solo a Londra, ma nel resto della vecchia Inghilterra e sempre più palazzoni a più piani con appartamente non più grandi dei Khrushchyovka russi degli anni Sessanta che si sostituiscono alle tradizionali villette a schiera con giardinetto. E la chiamano modernità… :/

2019 © Paola Cacciari

Londra// fino al 24 Marzo 2019

Home Futures @ Design Museum

designmuseum.org

Tempo di seconda mano, di Svetlana Aleksievic

Tecnicamente questo libro appartiene ancora al 2018, che sono trascorsi solo 5 gg dall’inizio del nuovo anno e non ho ancora completato nessuna nuova lettura che si possa definire appartenete solo al 2019. Ma questo libro di Svetlana Aleksievic, trovato ancora una volta grazie ai preziosi consigli del blog Parla della Russia, l’ho terminato alle 8pm del 31 dicembre del 2018 e mi è rimasto dentro come pochi altri. E’ un libro bellissimo, onesto e sincero, prezioso per chi come me è cresciuto in quel periodo, ma non ci ha mai prestato attenzione, al corso della storia contemporanea dico, e ora vuole recuperare il tempo perduto. Buona fine e buon inizio. E naturalmente, buona lettura! 🙂

PARLA DELLA RUSSIA

9788845282010_0_0_300_75“Tempo di seconda mano” di Svetlana Aleksevich è un libro prezioso per comprendere cos’è successo in Russia all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica. Una cacofonia di voci che avvolgono e talvolta soffocano e turbano il lettore. Molteplici punti di vista della “piccola gente”, quella che non fa la Storia con la S maiuscola, di fronte alla disintegrazione di quello che aveva rappresentato il sogno politico di molti.

Attraverso questo racconto corale l’obiettivo della scrittrice bielorussa, premio Nobel per la letteratura nel 2015 – premiata per “la sua opera polifonica, un tributo al coraggio e al dolore della contemporaneità” è quello di dare voce a donne (protagoniste di molte delle storie raccontate) e uomini, vittime e carnefici tutti protagonisti del dramma collettivo del crollo dell’Unione Sovietica.

È una letteratura – reportage, quella della Aleksevich, che non può avere l’oggettività dell’analisi storica ma ha invece una profondità nell’indagare gli spazi dell’animo umano spesso…

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Russia, Inghilterra, Romanovs e Windsor

La mia passione per la Russia è scoppiata proprio in un periodo in cui le sue relazioni diplomatiche tra quel grande paese e la mia Patria adottiva sono ritornate quasi ai livelli sub-zero della Guerra Fredda. Tipico. In ritardo su tutto, lo sono stata anche su questo. Succede.

Portrait of Peter I by Godfrey Kneller, 1698.
Portrait of Peter I by Godfrey Kneller, 1698.

Ma non è stato sempre così, anche se bisogna dire che relazioni tra Russia e Inghilterra, sono spesso state soggette nel corso della storia ad alti e bassi.  Tutto è cominciato con la celebrata visita di Pietro il Grande nel 1697, ospite di Guglielmo III (quello della Gloriosa Rivoluzione per intenderci),  passò il tempo nella Capitale a fare baldoria e a costruire navi. E tanto Pietro si era divertito che per ringraziare Guglielmo della sua ospitalità, commissionò un gigantesco ritratto di se stesso a Geoffrey Kneller, allora uno dei pittori piu’ in voga in Inghilterra, come dono per il sovrano britannico. Ritratto che fa bella mostra di se all’inizio della mostra Russia, Royalty & the Romanovs alla  Queen’s Gallery.

Alexander I of_Russia G.Dawe (1826, Peterhof)

E qui di teste copronate ce ne sono parecchie, a cominciare dalla matronale zarina Caterina La Grande al nipote, lo zar Alessandro I,  con la sua uniforme e gli stivali alti che, non contento di aver ricostruito San Pietroburgo in stile Neoclassico, decise di improvvisarsi sarto e disegnare nuove divise per l’esercito russo. E bisogna dire che, a dispetto di Napoleone e della sua invasione, i soldati russi erano di certo tra i più eleganti d’Europa.

Queste relazioni, dapprima rafforzate dall’alleanza nelle guerre napoleoniche, furono interrotte bruscamente dalla guerra di Crimea che vide le due nazioni scontrasi dal 1853 al 1856 sul campo di battaglia. Ma nonostante le gravi perdite da entrambe le parti (e le eroiche gesta dei soldati britannici cantate da Tennyson nella poesia The Charge of the Light Brigade) la pace torna in tempo per i figli e nipoti della  “nonna d’Europa” (come la Regina Vittoria veniva chiamata) possano cominciano a sposare i rampolli delle famiglie reali di mezza Europa, dando vita alle piu’ insolite parentele. Come quella con i Romanov, o il Kaiser di Germania.

I numerosi ritratti di famiglia e lettere e fotografie con cui la Regina Vittoria teneva i contatti con figli e nipoti lontani, soprattutto con l’adorata nipote Alix di Hesse, divenuta la zarina Aleksandra Fëdorovna Romanova. Mai come nell’Epoca Vittoriana, guerra e diplomazia sono davvero affari di famiglia, almeno per i Windsor (che comunquea all’epoca si chiavano ancora Sassonia-Coburgo-Gotha, che il nome Windsor fu adottato a partire da Giorgio V).

Family Portrait on Queen Victoria’s 75th Birthday / Photo, 1894 Victoria 1819 – 1901,
Family Portrait on Queen Victoria’s 75th Birthday / Photo, 1894 Victoria 1819 – 1901,

La mostra celebra il centenario della morte di Nicola II e della sua famiglia, uccisi dai Bolscevichi a Ekaterinburg nel 1918. Il Governo britannico aveva inizialmente offerto asilo alla famiglia di Nicky, solo per ritirare l’offerta poco dopo du richiesta di Giorgio V. Il triste fatto è che i due saranno anche stati cugini, ma “Nicky” e “Georgie” erano prima di tutto il Re di Gran Bretagna e lo Zar di tutte le Russie e quando la Rivoluzione Bolscevica abolisce la monarchia, Giorgio si guarda bene dall’offrire rifugio al cugino Nicky e alla sua famiglia per timore di compromettere l’alleanza con la Russia in una guerra combattuta con un altro cugino dei due sovrani in questione, il Kaiser Guglielmo II, il grande asssente tra i parenti in mostra.

Laurits Regner Tuxen, The Marriage of Nicholas II, Tsar of Russia, 26th November 1894
Laurits Regner Tuxen, The Marriage of Nicholas II, Tsar of Russia, 26th November 1894

Quando in rapporti cordiali, le due nazioni si scambiavano numerosi doni diplomatici grande valore, tra cui una serie di preziosi oggetti creati da l Peter Carl Fabergé che, a mio avviso, valgono da soli il prezzo del biglietto. Cornice, portasigarette, piccoli animali di pietre preziose e naturalemente le tre uova possedute dalla famiglia reale britannica, acquisite dopo la rocambolesca fuga in Inghilterra della madre di Nicola II, la zarina Marija Fëdorovna (che prima di diventare tale era la principessa Dagmar di Danimarca) dove fu  accolta dalla sorella Alessandra, madre di re Giorgio V. Uh! Confusi? Anch’io, che l’albero genealogico della monarchia britannica è un vero caos, e forse proprio per questo trovo re e regine così esotici e curiosi…

La madre di Guglielmo II, infatti, era la figlia maggiore della regina Vittoria, il che faceva di lui un primo cugino con entrambi, Re Giorgio V d’Inghilterra e lo Zar Nicola II di Russia. La guerra dei tre cugini, la chiamano qui in Inghilterra la Prima Guerra Mondiale, anche se io come sottotitolo metterei parenti serpenti… Sarebbe stata un appropriata conclusione della mostra e un esempio di come, a conti fatti,  la politica non guardi in faccia a nessuno. Con tanti saluti.

2018 ©Paola Cacciari

Londra// fino al 28 Aprile 2019

Russia, Royalty & the Romanovs @ The Queen’s Gallery, Buckingham Palace

www.rct.uk

Un gentiluomo a Mosca (A Gentleman in Moscow) di Amor Towles

Quest’anno ho letto molti libri belli. E questo di Amor Towles è certamente tra uno tra i piu’ belli. Che Un Gentiluomo a Mosca riesce ad essere allo stesso tempo un libro profondo e delicato, tragico e ironico, leggero e impeccabile, pur restando sempre attentissimo ai fatti storici di un periodo crudele e complesso come la Russia di Stalin.

Russia, Hotel Metropol in Moscow, view from the Bolshoi Theater

Una scrittura scintillante, ma controllata e permeata di una costante e gentile ironia da’ vita ad una serie di personaggi indimenticabili che va da aristocratici e cucitrici a chefs irascibili, stelle del cinema, artisti e intellettuali disillusi, managers frustrati e maître de salle di squista sensibilità. Dal lusso del Grand Hotel Metropol, in Piazza del Teatro a Mosca, a pochi passi dal famoso Bolshoi, dove è esiliato agli arresti domicigliari dal 1922, il Conte Alexander Rostov guarda per oltre trent’anni il dipanarsi della storia della Russia moderna. Bandito e dimenticato, relegato dopo la Rivoluzione al ruolo di ex-aristocratico il  Conte vede il mondo in cui è nato e cresciuto svanire sotto i propri occhi. Ma la prigione dorata in cui è stato rinchiuso a pochi passi dal Cremlino, finisce per proteggerlo dalle brutalità del regime di Stalin, dalle carestie di massa e dalle purghe, e persino dalla Seconda Guerra Mondiale.

Un libro che ha avuto su di me lo stesso effetto di Pane e Tulipani: una ventata di speranza in un mondo sempre piu’ brutale. Da lkeggere nei momenti di depressione. 🙂

2018 ©Paola Cacciari

I 900 giorni (The 900 Days: The Siege of Leningrad) di Harrison E. Salisbury

Quando qualche mese fa in fila alla biglietteria del Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo lo sguardo mi è caduto sul cartello degli sconti, ho notato accanto ai soliti studenti, insegnanti, pensionati e personale convenzionato, che l’ingresso gratuito al più bel museo del mondo era garantito ai veterani dell’assedio di Leningrado. I 900 giorni di Leningrado. Appunto.

The fire of anti-aircraft guns deployed in the neighborhood of St. Isaac's cathedral during the defense of Leningrad (now called St. Petersburg, its pre-Soviet name) in 1941.
The fire of anti-aircraft guns deployed in the neighborhood of St. Isaac’s cathedral during the defense of Leningrad (now called St. Petersburg, its pre-Soviet name) in 1941.

Passeggiando lungo Nevsky Prospect con i suoi bellissimi palazzi in stile classico e barocco e chiese dalle cupole multicolori, sembra impensabile che questo tesoro architettonico di città affacciato sul Mar Baltico sia stato testimone di una delle più grandi tragedie umane della Seconda Guerra Mondiale. Una tragedia che forse si sarebbe potuta evitare se i generali sovietici e lo stesso Stalin non avessero sottovalutato il pericolo di un’offensiva della Germania nazista.

San Pietroburgo, che allora si chiamava Leningrado contava prima della guerra una popolazione di tre milioni di abitanti. Ma con l’arrivo dei tedeschi alle porte dei sobborghi meridionali della città nell’agosto del 1941 e la riconquista dell’Istmo di Carelia da parte delle forze finlandesi (alleate ai tedeschi) a nord-ovest della città in settembre, la città venne completamente isolata dall’accesso via terra. E visto che prendere la città sarebbe stato troppo costoso, alla luce dell’aspra resistenza sovietica, i tedeschi decisero di assediarla e farla capitolare con la fame. E quasi ci riuscirono. Che presto oltre al cibo vennero a mancare elettricità, acqua e riscaldamento e migliaia di cittadini di Leningrado morirono assiderati durante quel primo implacabile inverno. E quelli che non morirono per il freddo morirono di fame.

L’assedio durò 900 giorni. Quando le forze sovietiche infine sollevarono l’assedio nel gennaio 1944, oltre un milione di abitanti di Leningrado erano morti per fame o per l’esposizione ai bombardamenti tedeschi. Oltre 300.000 soldati erano morti nella difesa e nel portare soccorso alla città.

Ed è questa storia eroica e terribile, per lungo tempo avvolta nell’oscurità e nascosta dalla censura stalinista, che Harrison E. Salisbury ha per primo ricostruito attingendo a testimonianze, diari, memorie e archivi, in una ricerca durata venticinque anni.
Nelle pagine de I 900 giorni scorre l’eroica difesa dell’Armata Rossa e di folle di volontari male equipaggiati; la pressione costante delle divisioni del Terzo Reich; gli episodi di coraggio e abnegazione, quelli di vigliaccheria; le morti per la fame, il gelo e i bombardamenti; gli sforzi di scrittori e artisti per tenere viva l’anima della città; i controlli feroci dell’apparato poliziesco; le disperate strategie dei generali per spezzare l’assedio e tenere aperta l’unica via per i rifornimenti, attraverso la superfi cie gelata del lago Ladoga.
Con il rigore dello storico e lo stile tagliente del giornalista, Salisbury ha costruito una narrazione epica che coglie pienamente la materia della Storia, plasmata dal coraggio e dalle azioni di uomini e donne comuni che vivono e agiscono. Non semplici comparse su uno sfondo, ma protagonisti.


Harrison E. Salisbury (1908-1993) ha lavorato come reporter e corrispondente dall’estero per numerose testate tra cui il Minneapolis Journal, il New York Times e Times. Nel 1955 ha vinto il Premio Pulitzer. È stato anche autore di numerosi libri sull’Unione sovietica, il Vietnam e la Cina, molti dei quali tradotti in italiano: L’orbita della Cina (1967), Rapporto da Hanoi (1967), 50 anni di vita sovietica (1968), L’Unione Sovietica nel dopoguerra (1971), La vera storia della lunga marcia (1987), Diario di Tien An Men (1989).

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2018 ©Paola Cacciari

A Londra i Capolavori della Fotografia Sovietica

Vadislav Mikosha aveva solo sette anni quando la Rivoluzione d’Ottobre scosse la Russia, portando alla fine del dominio zarista e alla nascita dell’Unione Sovietica. Quando nel 1990 l’URSS fu demolita insieme al muro di Berlino, il famoso fotografo e cameraman aveva 80 anni. Il che significa che è stato testimone dell’intera storia della Russia sovietica – dall’immediato periodo seguito alla rivoluzione, alla Seconda Guerra Mondiale, alla guerra fredda e oltre. 

Morning exercise, Moscow, 1937, by Vladislav Mikosha. Photograph: Courtesy of the Atlas Gallery, London

Solo tra i suoi contemporanei ad essere fotografo di scena e cameraman, Mikosha è stato l’autore di immagini iconiche di eventi come la brutale demolizione di Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca nel 1931, la difesa di Sebastopoli e la liberazione di Varsavia. Mikosha, che era ebreo, sopravvisse alle purghe antisemitiche di Stalin attenedosi attentamente alla linea del partito. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, è diventato un fotografo documentarista per pubblicazioni come Pravda e Ogoniok – l’equivalente sovietico della rivista Life – che copre la parata della vittoria sulla Piazza Rossa e gli incontri storici tra Stalin e Mao, Chruscev e Kennedy. Morì nel 2004, all’età di 95 anni, lasciando dietro di sé un vasto numero di immagini che documentavano un secolo di cambiamenti che senza dubbio avrebbe trovato inimmaginabili come quel bambino di sette anni.

Lev Borodulin, Pyramid. Moscow, 1954

Ma Mikosha e’ in buona compagnia che insieme a lui in questa piccola e prezioza mostra fotografica della Atlas Gallery di Londra, ci sono alcuni dei piu’ grandi nomi della fotografia sovietica proveninenti della Borudilin Collection di Mosca

Nato a Mosca nel 1923, il russo/israeliano Lev Abramovich Borodulin è un maestro di fotografia sportiva residente a tel Aviv dal 1972. Oltre lavorare come fotografo, Borodulin ha raccolto una collezione di primo piano di fotografi sovietici che include oltre al sopracitato Mikosha e molti altri, anche le iconiche immagini di Alexander Rodchenko, Arkadii Shaikhet e Boris Ignatovich.

Arkadii Shaikhet, Komsomol Youth at the Wheel 1936

Sono fotografie che ritraggono giovani contadini ed operai pieni di salute e dai sorris smaglianti, impegnati in attivita’ fisiche come la danza, l’atletica e sport di ogni tipo, che la prestaza fisica era un soggetto caro alla propaganda di Stalin. A quel tempo, un’enorme percentuale della popolazione russa era analfabeta, quindi la comunicazione visiva era estremamente importante.

Alexander Rodchenko. Liliya Brick, 1924
Alexander Rodchenko. Liliya Brick, 1924

La fotografia stava facendo passi da gigante e i fotografi sovietici avevano l’obbligo di fare foto che simboleggiassero il progresso collettivo, il proletariato moderno e l’idea di comunità. Quelli ritratti erano giovani russi pieni di salute che saltellavano ottimisticamente – poco male che nello stesso periodo la Russia fosse attanagliata da una carestia incredibile. Occhio non vede cuore non duole. Potere della propaganda. #sovietphotography

Boris Ignatovich, Youth, Moscow, 1937
Boris Ignatovich, Youth, Moscow, 1937

2018 ©Paola Cacciari

 

Londra// fino al 24 Novembre 2018

Masterpieces of Soviet Photography is at Atlas Gallery, 

Atlas Gallery, London W1