L’Inghilterra del dopo-Brexit: riflessioni dall’interno.

La prima cosa che ho fatto appena ho aperto gli occhi alle 6.45 del mattino di venerdì 24 Giugno è stato prendere il telefono e controllare Internet. Non lo faccio mai di solito, che fortunatamente non appartengo ancora ai sempre più numerosi internet addicted. Ma c’era una cosa che davvero mi premeva sapere e che non poteva aspettare la colazione e la doccia: il risultato del Referendum per l’uscita (o meno) dall’Unione Europea.

Nel tentativo di aprire con occhi semichiusi l’app della BBC News, le mie dita addormentate sono scivolate sull’app di Facebook che gli sta affianco. E mi sono svegliata subito quando ho letto questo: “To anyone who voted Leave: well done. You got what you wanted, a segregated country that will have Boris Johnson at its helm, Farage sticking his racist nose in and the loss of funding for research, education and healthcare as well as a housing crash and no future for your children or generations to come. Congratulations.”

Il post è di una mia giovane collega. E non lascia dubbi né sull’esito del Referendum né sulla sua posizione al riguardo. “Ok, you are out.” Ho informato con aria incredula la mia dolce metà, ancora profondamente addormentato. “Uhmmm…” E stata la sua risposta. “Ho detto che siete fuori. Brexit won. Bye, bye EU!” “What??” La sua testa emerge improvvisamente da sotto le coperte. Mi guarda con aria incredula. “It can’t be…” Gli mostro lo schermo del cellulare questa volta aperto (correttamente) sul sito della BBC con il risultati del referendum con cui il 51.9 % del Paese ha deciso di tornare ad essere un’isola. E il restante 48.1% deve vivere con le conseguenza. “I really didn’t think it would happen…” mi guarda stupito. “I’m sorry. I really am.”

E sono in molti ad esserlo, dispiaciuti dico. Non solo gli espatriati come me che dall’oggi al domani si sono trovati ad essere stranieri in quella che fino al giorno prima avevano considerato casa, ma anche i giovani britannici che si sono visti sempre dall’oggi al domani venir meno la possibilità di vivere, studiare e lavorare liberamente in 27 paesi dell’Unione. E non parliamo di coloro che hanno comprato casa in qualche paese mediterraneo e si godono la pensione (e l’assistanza sanitaria locale) o speravano di farlo in un prossimo futuro. Un collega posta su FB la fotografia della sua European Health Insurance Card e del suo passaporto con il logo dell’UE con la scritta: “R.I.P. my friends.” La sua ragazza è canadese, il suo migliore amico spagnolo. Ha una trentina d’anni, è uno sceneggiatore che lavora part-time al museo e uno dei tanti cittadini britannici di mente aperta, abituati a saltare su un aereo come su di un autobus e a viaggiare ovunque e ogni volta se ne presenti l’occasione. E ce ne sono tanti come lui, non solo a Londra, ma anche a Cambridge, Oxford, York, Leeds, Liverpool, Brighton, Manchester: persone che vedono l’Europa e il multiculturalismo come un’opportunità da afferrare a piene mani e non come che una minaccia.

Cosa Brexit significherà per noi cittadini dell’UE che vivono e lavorano in Gran Bretagna ancora non si sa – come ho scritto nel post precedente, probabilmente la prossima mossa sensata sarà quella di richiedere un permesso di residenza permanente (Permanent residence card) se non la doppia cittadinaza. Ma il vento è cambiato, e non in meglio. E comunque voglio prenderlo il passaporto di una nazione che ha votato per tornare ad essere un’isola? La cosa mi sta facendo pensare. E’ come essere forzati in un matrimonio dopo anni di felice convivenza. Toglie freschezza, toglie libertà.

File photo: David Cameron has accepted there will be no deal before February – and the prospect of Brexit appears closer than ever

Nessuno era preparato, preparato DAVVERO, a tutto questo, neanche coloro che hanno votato Leave per protestare contro un governo sempre più lontano e distaccato dai bisogni della gente comune. Certo non lo era David Cameron che quando ha indetto il referendum nel 2015 aveva 10 punti di svantaggio sul Labour nei sondaggi e non si aspettava di vincere le elezioni da solo, ma insieme ai liberaldemocratici, da sempre europeisti convinti e che con tutta probabilità si sarebbero opposti. Forse neanche Boris Johnson pensava che avrebbe vinto Leave quando le sparava grosse per compiacere l’ala più euroscettica dei Conservatori. Sta di fatto che siamo (mi ci metto in mezzo anch’io) tutti ancora storditi. C’è tristezza e una certa ansia per l’ondata xenofoba che ha improvvisamente investito questa che era un tempo la culla della democrazia e della tolleranza. Ma il 23 Giugno ho capito che democrazia è anche permettere al conservatore che vuole ritornare alle glorie dell’Impero Britannico e al pensionato del paesino perso nel mezzo della campagna di decidere del futuro della città ombelico del mondo, Londra. E l’ironia più grande è che coloro che hanno voluto uscire dall’UE non saranno qui a pagarne le conseguenze. Basta guardare il grafico qui sotto.

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Ma l’altra cosa interessante è la geografia: Londra e le grandi città britanniche in genere hanno votato per restare nell’Unione (se siete curiosi, trovate la lista completa qui), mentre le aree rurali e le province hanno votato per uscire. E le ragioni sono le solite: la troppa immigrazione che pesa sul già traballante servizio sanitario britannico (NHS), la mancanza di case, di lavoro, la povertà e l’abbruttimento morale che imperversa in aree del Nord massacrato da Margaret Thatcher negli anni Ottanata e regolarmente dimenticate dai politici di tutti i partiti, incluso il New Labour di Tony Blair e compagni.

E se il voto Remain della Scozia non ha sorpreso (farebbero qualunque cosa per contrariare l’ingilterra e comunque a loro fa comodo restare in Europa) la più grossa sorpresa è stato il Galles. Un amico gallese da anni residente a Londra, scrive con aria sconsolata sul suo profilo FB a proposito della reazione della sua terra d’origine: “Do we now have to return all the roads and bridges?” Che, ironia della sorte, nonostante vari milioni in fondi investiti dall’UE per rigenerare aree della regione impoverite dalla chiusura delle miniere di acciaio, la stragrande maggioranza degli abitanti del Galles (fatta eccezione per la capitale, Cardiff) ha votato Leave. Senza tanti ringraziamenti.

Il Primo Ministro David Cameron, colui che indicendo il Referendum ha aperto questo vaso di Pandora, ha dato le dimissioni nella mattinata di venerdì e le voci danno Boris Johnson, l’ex-sindaco di Londra dai capelli color pannocchia come favorito come prossimo leader del Paese –  colui che dovrà gestire la patata bollente del post-Brexit. Il che rende la dipartita di Cameron ancora più grottesca.

In mezzo a tutto questo caos, il nuovo sindaco di Londra Sadiq Khan ha  parlato chiaro: gli stranieri, di qualunque razza, religione e nazionalità sono i benvenuti nella Capitale. E Londra sembra ancora meno Inghilterra.

2016 ©Paola Cacciari

16 thoughts on “L’Inghilterra del dopo-Brexit: riflessioni dall’interno.

  1. Hai dato una sintesi perfetta e chiara. Il seguito? Non leggo o sento un commento per quanto autorevole in grado di fare previsioni. Unica certezza, adesso non solo la GB dovrà affrontare un mare di problemi ma anche noi, qui, col nostro macigno di debito pubblico abbiamo da stare poco allegri. Intanto Farage già si rimangia le promesse ordite solo per sporco calcolo politico, è stato clamorosamente smentito da una giornalista in TV e Farage faceva pena vederlo svicolare. Inoltre molti degli stessi votanti il leave, già si pentivano a caldo nella stessa notte del “trionfo”.
    Quest’esperienza mi fa condividere il parere di un professore della Sapienza, che oggigiorno i problemi sono troppo articolati e complessi. La loro soluzione comporta preparazione e freddezza. Due elementi indispensabili e del tutto assenti in un referendum dove a prevalere è la pancia, sono gli umori. Un referendum va senz’altro bene ed è auspicabile anzi ma su quesiti di quartiere o locali. Lì è giusto che la comunità si esprima. E lì stranamente i referendum non si fanno!

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    1. E’ una sensazione strana. Soprattutto al museo. Persone di ogni razza, religion e nazionalita’ che fino a Giovedi’ hanno convissuto in armonia, da venerdi’ si sentono in diritto di urlarsi addosso per attacarsi o per difendersi. Ogni ha dirito alla propria opinione, ma la cosa mi rende immensamente triste.

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  2. Sì, ma opinione fa anche rima con educazione. E capisco la tua tristezza. Ho sempre pensato che anche nei rapporti tra persone ci debba essere un’estetica. Se questa non c’è, non resta che evitare, e ricorrere a saggezza-compostezza-dignità. Ceto, è faticoso e ad un lavoro bello che ci piace e abbiamo scelto, subentrano cose che non c’entrano ad avvilirlo.
    Un abbraccio.

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  3. Capisco la nausea e il senso di tradimento all’idea di una cittadinanza forzata, ma la permanent residence card è permanent solo per 5 anni.

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    1. Questo mi era sfuggito. Ieri ho cominciato a leggere il modulo per la residenza permanente e mi sono addormentata alla prima pagina… 😦

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      1. Non vanno riempite tutte le 85 pagine, ma bisogna includere una marea di scartoffie e documenti in originale e tutte le date di entrata e uscita dal Regno Unito per viaggi, vacanze etc. Mi raccomando, accludi 6 anni, altrimenti se vuoi fare domanda per British Passport devi aspettare altri 12 mesi dal ricevimento della permanent card

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      2. È fatto ad hoc x scoraggiare le domande e fregare i candidati…

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  4. In effetti è dall’anno scorso che c’è questo spettro della Brexit e gli italiani che lavorano lì non possono star sicuri. 😐 Loro rimandano ma ognuno non può star sicuro. 😫

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    1. Non parlarmi della Brexit… 😒 Boris & C. pensavano che il Covid ce l’ha fatta dimenticare, ma e’ ancora li’ che ci pende sulla testa come un masso che ci sta per cadere addosso….😠

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